Regia di Julian Schnabel vedi scheda film
Questa è una storia che, pur avendo dell'incredibile, è accaduta veramente, in Francia, pochi anni fa. Ma c'è un problema. Gli abissi di dolore, di solitudine, di disperazione, in cui sprofonda il protagonista risultano essere eccessivi per le mie possibilità emotive di sopportazione. Se dicessi che questo film mi ha procurato angoscia o malessere userei un eufemismo, diciamo pure che mi ha ammazzato. Ora, premesso che io non voglio star qui a fare il "fenomeno" che vuole apparire ipersensibile, ma, credetemi, in certi punti della visione io sono stato davvero male. Non credevo nemmeno che sarei riuscito a scriverne e a commentarlo, tanto mi erano mancati quei presupposti minimi di serenità. Voglio completare questa premessa, a sottolineare la mia personalissima visuale sull'argomento umano trattato: io credo che certi "inferni" di dolore, così sconquassanti e rovinosi, non andrebbero amplificati con l'inevitabile effetto-spettacolo, ma lasciati rigorosamente alla sfera piu' profondamente intima di chi questi inferni li vive (e dei rispettivi parenti). Certo, so bene che il protagonista ha scelto lui stesso di divulgare la sua vicenda attraverso un libro autobiografico, ma io -come fruitore di cinema o di letteratura- preferisco astenermi dal "consumare" certe rappresentazioni del dolore che mi atterriscono, mi fanno stare troppo male. Che volete che vi dica? Che sono un debole? Può anche essere, mica lo escludo. Immaginatevi un editore rampante, un quarantenne che ama assaporare la vita, le cose belle, l'arte, il buon cibo, le belle donne...all'improvviso arriva un subdolo ictus che gli "spacca" completamente la vita. Da un momento all'altro questo giovane dinamicissimo si ritrova totalmente immobile, paralizzato, salvo l'occhio sinistro (l'altro gli viene cucito!). E con quell'unico occhio che diviene la sua porta sull'universo, egli comunica col mondo circostante. E questa è solo la partenza del film: ma già a pochi minuti dall'inizio io ero già a disagio, pensando a quale carico di disperazione si fosse impossessato di quel povero cristo muto. Eppure il nostro Jean-Do(minique) da quel momento azzera la propria vita e ne comincia un'altra. Non essendo uno stupido, fa appello, fra inevitabili alti e bassi, alla propria volontà e a quello che viene usualmente definito "istinto di sopravvivenza", per cercare di risollevarsi. Bisogna anche dire però che Jean-Do non è, per fortuna, un uomo lasciato a sè stesso. Ci sono tre donne che gli stanno accanto (a diverso titolo) fino alla fine (fine che per lui sopraggiungerà poi nel 1997). Una è la ex moglie, che lo assiste con assiduità nell'ospedale presso cui è ricoverato, l'altra è l'amante che lo contende alla ex moglie fino all'ultimo. E poi c'è quel vero e proprio angelo travestito da dottoressa ortofonista che insegna a Jean-Do (con una pazienza che ha del disumano) a comunicare attraverso il battito della sua palpebra. Le donne sono state importanti nella sua vita, diciamo così, "precedente". E questa menomazione è un'occasione per ripercorrere con la memoria, anche in senso critico ed autocritico, i suoi legami con l'altro sesso. Appunto, la memoria; sì, perchè oltre all'occhio (e questo lui lo dice con forte enfasi a sè stesso nel film) c'è un'altra cosa (anzi due) che lui può muovere a suo piacimento: l'IMMAGINAZIONE e la MEMORIA del passato. Ed ecco allora che nella sua mente si aprono varchi finora impensabili, può immaginare di vedere ogni cosa, in un delirio onnipotente
di fantasìa. Ma può anche essere assalito dalla malinconìa e dal rimpianto, ripensando al tenero rapporto che lo lega all'anziano padre. Oppure la sua mente libera può rivisitare il ricordo di una singolare esperienza di vacanza, tra il sacro e il profano, a Lourdes, in compagnia di una giovane amante. Fin dall'inizio il regista favorisce la condivisione da parte del pubblico della vicenda, permettendogli di utilizzare lo stesso "sguardo" di Jean-Do tramite il ricorso alla "soggettiva" cinematografica. Lo spettatore viene così coinvolto negli sbalzi d'umore del protagonista, ed è testimone dei piccolissimi progressi della malattia così come dei soprassalti di negatività che assalgono Jean-Do. Ma c'è una sequenza, piu' o meno verso il finale, che mi ha davvero sconvolto. E qui voglio aggiungere che si tratta di una percezione assolutamente personale, legata probabilmente a ricordi o a visioni che appartengono solo alla mia psiche o al mio inconscio, perchè -di fatto- non è detto che la scena abbia un'importanza primaria: mi riferisco alla ricostruzione del preciso istante in cui Jean-Do viene colto dall'ictus. Lo scenario è quello di una stradina di campagna. Jean-Do la sta percorrendo in auto, è al volante e sta conversando col giovane figlio seduto accanto: sta pronunciando una frase banale nel contesto di un discorso altrettanto banale; ricordo ancora quelle precise parole "Avremmo dovuto..." due parole che gli escono di gola stranamente disarticolate, e qui si rende conto che in lui c'è qualcosa non va, allora le pronuncia di nuovo ma le stesse parole gli escono ancora piu' strozzate e gutturali: ecco, il Male si è appena impossessato di lui, che ha appena il tempo di accostare, mentre il figlio lo guarda sbigottito e schizza fuori dall'auto correndo a cercare aiuto. Ecco: la faccia di Jean-Do nell'attimo in cui l'ictus lo raggiunge è qualcosa che non dimenticherò mai, qualcosa che mi ha fatto davvero star male. Quello che mi disturba è quest'idea del Male supremo, quello che ti spacca il culo, che ti arriva addosso all'improvviso, e magari tu sei una persona con una voglia di vivere da far paura. Ma poi ci sono altre sequenze che ricordo con affetto. Per esempio un dialogo telefonico impossibile e disperato fra Jean-Do e il padre; oppure una emozionante e tesissima telefonata a tre, che vede protagonista "passivo" lo stesso Jean-Do e protagoniste "attive" la ex moglie e l'amante in una sfida verbale a distanza carica di pathos. Il regista (pittore prestato al cinema) Julian Schnabel è riuscito a non riprodurre banali effetti patetico pietistici pur muovendosi su un terreno che era il massimo dello scivoloso in tal senso. Altra cosa riuscita del film (che poi Jean-Do era davvero così) è il non dipingere il protagonista come un "poverino" ma come un essere umano che, anche da malato grave, ha saputo conservare un suo lato ironico-bastardo. Una segnalazione per la presenza in veste di produttore esecutivo di quella stessa Kathleen Kennedy (peraltro socia abituale di Spielberg) che aveva già prodotto il bellissimo "Persepolis". Naturalmente protagonista assoluto del film è Mathieu Amalric, con quel volto rattrappito in una smorfia dolorosa, e quell'incredibile occhio roteante: una maschera indimenticabile. Poi c'è la bella Emmanuelle Seigner molto brava in un ruolo non facile, forse anche perchè non del tutto definito. Max Von Sydow struggente nella parte del vecchio padre straziato. E infine un fulmineo cammeo del notissimo attore francese Jean Pierre Cassel, qui nell'ultima interpretazione prima della sua scomparsa. Ricca la colonna sonora: ma preferisco sorvolare sui nomi eccellenti dell'universo rock (del cui supporto non mi stupisco date le note frequentazioni di Schnabel presso le celebrità) per segnalare invece con enfasi la presenza sui titoli di testa di una delle canzoni piu' belle di ogni epoca: "La Mer" di Charles Trenet.
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