Regia di Julian Schnabel vedi scheda film
I primi minuti sono spaventosamente efficaci: gli oggetti si rifiutano di fissarsi in forme, la luce ferisce l'occhio. Percepiamo in modo distorto, analogamente a Jean-Dominique Bauby (o quantomeno il film tenta di collocarci in una condizione simile alla sua). In soggettiva fissa ci passano davanti personaggi parlanti e l'esitante voce interiore di Jean-Do cerca di farsi sentire, ma non raggiunge l'esterno. Locked-in syndrome: il cervello è stato disconnesso dal resto del corpo, tranne la palpebra sinistra. Bauby, ex capo redattore di ELLE, si ritrova prigioniero di un corpo-scafandro che lo trascina sul fondo, ma il suo occhio e la sua immaginazione rappresentano una farfalla che può battere le ali e comporre parole, frasi, un libro.
Purtroppo Schnabel teme che la significazione, la drammaticità e la profondità delle situazioni possano essere chiarite quasi esclusivamente facendo ricorso alla parola, sicché il dettato interiore di Jean-Do tende a prevaricare le immagini, limitando pesantemente le potenzialità estetico-percettive del film. Che col passare dei minuti, fatta eccezione per rari e bellissimi momenti di osservazione silenziosa (le sbirciate alle gambe di Céline), si traduce in un'illustrazione visiva del flusso verbale di Jean-Do. Il capolavoro di Schnabel: vale a dire il miglior film che il pittore/scultore/regista newyorkese abbia mai fatto, ma pur sempre un suo film (con tutto ciò che questo comporta).
Cameo da paura di Niels Arestrup (quanto adoro quest'uomo) e duplice comparsata del recentemente scomparso Jean-Pierre Cassel (a cui il film è co-dedicato).
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