Regia di Julian Schnabel vedi scheda film
Come si realizza un film incentrato su una storia di terribile realtà senza cadere incredibilmente nel retorico, nel patetico e nel pietoso? Julian Schnabel, di professione pittore, si cimenta dietro la regia di un film particolare, che prova a dare un senso al nostro rapporto con gli altri e con la Natura, partendo da un qualcosa che potrebbe distoglierci dalla natura stessa, come un male. Lo scafandro e la farfalla è un film solare, bellissimo, straordinario, che non si serve della malattia per fare morale, ma che anzi, grazie proprio alla malattia cerca di ricrearsi, di reinventarsi, di ritrovare se stessi e gli altri. Ricorda da vicino gli esperimenti di Kitano, questo splendido affresco interculturale sulla infinita speranza in cui stipare i momenti buii della vita. Ma partiamo dal principio. Jean-Dominique Bauby si è appena risvegliato da uno stato di coma. Ha perso possesso del suo corpo e riesce solamente a comunicare con l’esterno grazie alla sua palpebra sinistra. Dopo un iniziale e comunque sostenibile sconforto, l’uomo comincia ad abituarsi alla sua condizione e nei maggiori momenti di sconforto può sempre rifugiarsi nell’unico posto che nessuno potrà mai distruggere: la sua mente. L’uomo, infatti, comincia a ripensare a momenti lieti, facendo un lento e difficile percorso a ritroso nella sua esistenza, per capire veramente chi lui sia e riuscire a ritrovarsi nella sua nuova condizione. Il film è fiero nella sua divisa ufficiale e soprattutto ha un pregio che molti film che trattano lo stesso argomento dovrebbero avere: non si schiera mai, lascia scegliere tutto e comunque allo spettatore che attento, potrà decidere da che parte stare. Il dilemma principale non è, come potrebbe sembrare, quello tra vita ed eutanasia. La forza della vita è certo determinante in situazione come questa, ma è anche e soprattutto la volontà umana a gestirla bene e a sapere dove fermarsi, soprattutto, cosa un uomo può e non può fare in una situazione come quella. Schnabel non dà mai certezze, ma si supera, realizzando un bellissimo e commovente ritratto di personalità umana lontano dagli stereotipi del caso e perennemente attratto dalla voglia di raccontare storie realiste, il regista, riesce anche a dare una sua interpretazione visiva del mondo: una giostra di colori, in cui c’è chi scende e c’è chi sale. Se Sali, ben venga. Se scendi, tenta in tutti i modi di tenerti aggrappato per non dover davvero scendere. Considerato una risposta americana a Mare Dentro(che al confronto appare solo un moscerino da schiacciare), il film è interpretato da un attore straordinario nel ruolo del protagonista, che ci dà una prova incredibilmente umana per un ruolo veramente molto difficile. Tra flashback e sviluppi temporali, il film si muove soprattutto nell’interiorità di Jean-Do, offrendo una panoramica sui suoi sentimenti e sui suoi pensieri, ovvero su tutto quello che non si riesce a vedere, ad occhio nudo, in un semplice battito di palpebra. Il film è lontano da ogni moralismo. Jean-Do non è né considerato come elephant man, né come povero malato, ma bensì viene considerato come uomo, capace di scrivere(di dettare con le palpebre) un romanzo che dovrebbe uscire nel film, proprio con il titolo del film stesso. E mai titolo fu più adeguato: nel romanzo autobiografico da cui il film prende spunto, c’è scritto “L'occhio diventa la soglia che permette al pesante e inerte scafandro del suo corpo di liberare ,anche se faticosamente, la farfalla del pensiero”. In conclusione, Lo scafandro e la farfalla è un film oltre che, come già detto, bellissimo e molto commovente, soprattutto umano. Ed è proprio l’umanità, quel valore che il cinema di questo genere dovrebbe riscoprire. L’umanità, che non va scambiata con la voglia di far pietà. L’umanità è altro. L’umanità è Jean-Do e la sua palpebra.
Melodioso.
Bravissimo.
Brava anche lei.
Niente male.
Prova piccola ma importante.
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