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Luz silenciosa

Regia di Carlos Reygadas vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Luz silenciosa

di pippus
10 stelle

Avrei una premessa per I potenziali spettatori: questo film non possiede una vera colonna sonora però, siatene certi, la sinfonia arriverà ma, anziché alle vostre orecchie, direttamente ai vostri occhi !

 

 

Incuriosito dalle ultime recensioni ho approfittato del canale on demand del nostro sito per prendere visione di questa sublime opera in lingua originale con sottotitoli in italiano.

Da estasi! Mi è tornato alla mente il Malick di un film particolarmente amato dal sottoscritto: “The Tree of Life”.

Il messicano Carlos Reygadas realizza un capolavoro profondo e toccante, un’armonia di immagini e colori priva di colonna sonora ma efficacemente sostituita dai soli suoni della natura e della realtà contadina.

L’esperienza sensoriale che deriva allo spettatore dalle formidabili sequenze iniziali e finali trasfonde un legame con la spiritualità che, al pari dell’opera di Malick, infonde quell’aura mistica ottimale per il dicotomico epilogo fra ascetismo e pragmatismo.

La luce silenziosa è forse quella dell’alba, o piuttosto del tramonto, a cui consegue un affascinante, meditativo e misterioso cielo stellato? Una luce che, al pari del silenzio, è per la mente quello che una dolce melodia è per l’udito? Può darsi, ma non sono da escludersi altre interpretazioni che ometto al momento, ma tenterò di azzardare in chiusura.

Definirei questo un lavoro eccelso finalizzato a trasporre su pellicola una prova di vita vera, sofferta e vissuta nell’intimo dei sentimenti nel modo più realistico possibile e, per questo, come nella realtà priva di qualsiasi sottofondo musicale onde non enfatizzarne né attenuarne le sensazioni.

Alexis Zabe non è una celebrità ma è sicuramente un mago della fotografia, e conseguentemente quella che ci propone è una vera opera d’arte e tale la dovrà considerare lo spettatore predisponendosi alla visione.

Le lunghe sequenze con camera fissa alternate ad altrettanto lunghe e lente zoomate consentono l’immedesimazione nel dramma vissuto dai tre protagonisti con la prerogativa del punto di vista multiplo che, nella consuetudine, non è mai tale (in particolare per chi vive la vicenda in prima persona), rendendo di fatto altamente improbabile, se non impossibile, l’imparziale e approfondita comprensione delle altrui sofferenze.

Reygadas è maestro nel visualizzare attraverso le immagini ciò che effettivamente la chimica delle nostre sinapsi ha il potere di ottenere sconcertando anche il più razionale degli individui, compreso, come nel caso specifico, il componente di uno dei gruppi più ortodossi del protestantesimo collaterale: I Mennoniti:

 

- Breve excursus del contesto storico-

La vicenda si svolge in un villaggio mennonita messicano.

Lì migrarono dalla Russia - in conseguenza della Rivoluzione d’Ottobre del 1917 - dove si erano trasferiti dopo che il movimento aveva visto la luce in Olanda grazie al fondatore Menno Simons, ex sacerdote cattolico convertito alla dottrina anabattista (criticavano il battesimo in tenera età a favore del sacramento in età adulta) che, intorno al 1550, riorganizzò gli adepti I quali, in seguito alle  molteplici persecuzioni subite, misero in atto una vera e propria diaspora spargendosi in varie zone del mondo comprese le Americhe e, aspetto non secondario, continuando a parlare il Plautdietsch, un dialetto misto fra il tedesco e l’olandese.

 

Johan è il figlio del predicatore del villaggio e conduce, insieme alla moglie Ester e ai sette figli, una vita di lavoro in fattoria frammista alla devozione per Dio; una vita quasi del tutto identica, nella sequenza delle operazioni quotidiane, a quelle vissute da suo padre e dai suoi avi nei 400 anni precedenti, cioè fin dalla nascita del Movimento.

Ogni giorno lunghi silenzi prima delle preghiere a tavola; lavoro nella stalla e nei campi, ma anche musiche, bagni nello stagno e momenti di controllata allegria; con questo status la vita scorre nella regolare monotonia della comunità chiusa agli eccessi della modernità. Fino a quando il destino decide di riservare anche a quest’uomo quella particolare condizione che ha da sempre riservato e riserva tuttora ai più: la sindrome da innamoramento!

Johan si innamora di Marianne, una donna del vicino villaggio, non particolarmente bella ma che ai suoi occhi sembra l’essenza della vita, e senza la quale prova quel senso di ipossia comune agli umani vittime della stessa sindrome che induce, in tali “pazienti”, quelle ben note bizzarrie comportamentali che rendono complesse le più elementari azioni quotidiane.

Ovviamente la forma mentis del più razionale degli uomini in quel periodo non è più tale, e la distorsione della ratio comporta anche per Johan l’impossibilità di affrontare la situazione con il dovuto senno e coerenza (citando Allen: “quando è il cuore a comandare il cervello, succedono disastri” !)

I lunghi assordanti silenzi durante gli spostamenti in auto sono saturi di onde cerebrali su ardue e complesse decisioni da parte di Johan e, all'opposto, di desolata sofferenza da parte di Ester che, informata fin dall’inizio della situazione, sente crollare tutte le certezze che fino a quel momento avevano saturato e confortato la sua esistenza.

Johan non è uno sprovveduto e tantomeno un irresponsabile, ma versa in un cronico stato confusionale di cui è consapevole, tant’è che intende rivolgersi a suo padre per un consiglio che non potrà obiettivamente accettare avendo già deciso, In cuor suo, quale sarà il  destino a cui andare incontro.

Il predicatore dapprima enfatizza la predestinazione evocando il maligno, poi rivela una quasi invidia quando gli sovviene una vicissitudine dello stesso tenore vissuta in silenzio decenni prima, subito dopo la nascita del figlio. Il colloquio parrebbe confermare in Johan la decisione di lasciare moglie e figli, e al proposito dice: “ quando confronto le due donne non tengo conto di quel che provo ora per Ester ma di quel che provavo quando l’ho conosciuta, e ora posso dire che anche allora avrei preferito Marianne; con Ester ho commesso un errore e ora mi tocca rimediare”.

L’anziano tenta di farlo riflettere ricordandogli che, oltre ad avere dei figli di cui è responsabile, Ester è sua moglie! Una moglie che nutre per lui un affetto totale per cui, anche se non indolore, sarebbe sufficiente imporsi di non vedere l’altra per un po’ di tempo (come peraltro aveva fatto lui) per rendersi conto, in tal modo, che tutto passa e, a maggior ragione, anche il dolore per la perdita di un affetto "Panta rei" per dirla con Eraclito, ma Johan è sordo a queste parole, confermando che il suo recarsi dal padre altro non era che un inconscio tentativo allo scopo di attenuare gli scrupoli dettati dalla coscienza.

La lentezza e la pignoleria di Reygadas è magistrale nell’evidenziare ogni particolare tendente a immedesimarci nell’atmosfera pesante della situazione, dalle suppellettili della cucina all’oscillare rumoroso, quasi inquietante, del pendolo; dal gioco dei figli nel vicino stagno, ai quotidiani lavori che ciclicamente si ripetono tra la stalla e I campi di granoturco.

Apparentemente non traspare nulla del dolore tra I due ma la sofferenza è sempre più insopportabile. E la prima a soccombere, gradualmente ma funestamente, è proprio Ester. La drammaticità della sua morte ci viene proposta con una struggente sequenza nella quale la progressiva consapevolezza della tragicità dell’evento azzererà in breve l’ebbrezza della passione di Johan. E’ in questo modo angoscioso che effettivamente la foschia sinaptica svanisce permettendo nuovamente quella totale lucidità e razionalità che, nonostante l'infausto epilogo, consentiranno, se non altro, il recupero del senso di responsabilità nei confronti dei figli.

Le sequenze attraverso le quali Reygadas permette a Johan di addivenire - seppur con il senno di poi - alla consapevolezza di quanto sia improbo il raziocinio nel corso di convulse rivoluzioni chimico-ormonali, sono sequenze particolarmente catartiche, pregne di pace, di colori e rasserenanti preghiere. Solo ora Johan comprende quanto sia inutile il consiglio all’orecchio del sordo, al pari di un tramonto per il cieco.

 

Lo stato dell’arte della fotografia di Zabe vede il suo apice in chiusura, in quelli che potremmo definire una vera poesia per immagini, quattro minuti in cui si concentra l’ultima ora del tramonto, quella che unisce i flebili raggi del sole alla silenziosa luce delle stelle. Questa mirabile sequenza è preceduta da un’altra meno affascinante ma altrettanto intensa, una sequenza dedicata alle protagoniste del dramma e che lascia lo spettatore dubbioso e libero di interpretare come meglio crede quello che ordinariamente si definisce un finale aperto.

Nell’intrigante armonia dell’epilogo mi piace, e ne sono convinto, intuire un’esplicita richiesta della regia ad aprire la nostra mente e accettare la transizione da ciò che è abitualmente comprensibile a ciò che non lo è. A questo proposito,riallacciandomi a quanto scritto più sopra, avrei una  seconda teoria per la “luce silenziosa” del titolo, una teoria alternativa ma non meno affascinante:

logico ed evidente pensare alle stelle inquadrate in chiusura, Reygadas potrebbe però non alludere a queste ultime ma a un’altra sorgente di “luce” altrettanto silenziosa ma su una frequenza più profonda, oltre lo spettro del visibile, la cui emissione non sarebbe dovuta agli astri ma all’aura dei sentimenti.

Marianne arriva a casa di Johan, lei che il giorno precedente era stata bollata come “maledetta puttana” da Ester, ora ha insistito per poter render omaggio al suo feretro. E’ sola nella camera ardente inginocchiata a fianco della bara, la mdp indugia sugli intensi attimi di sincera commozione e, quando Marianne si china per baciare Ester, le sue lacrime cadono sul viso di quest’ultima. Pochi minuti prima Johan le aveva sussurrato:” darei qualunque cosa per poter tornare indietro” e Marianne aveva risposto: "tornare indietro è l'unica cosa che in questa vita non possiamo fare"! Mai avrebbe pensato che di lì a poco sarebbero bastate poche ma sincere lacrime per smentire quelle parole.

Marianne da rivale si ritrova così fautrice di quel miracoloso ritorno alla vita che Reygadas ci propone neppur troppo velatamente, direi, anzi, ostentando il prodigio con dovizia di particolari, fino alla bimba che rivolgendosi sottovoce a suo padre bisbiglia con insistenza: “ papà vieni, vieni di là papà, la mamma chiede di te, ti vuole parlare ”!

 

Bellissimo, coinvolgente e struggente oltre ogni misura. Chapeau a tesa larga !!!

 

P.s.Unico rammarico, la difficoltà nel reperire tale eccelsa opera che meri tornaconti economici non hanno permesso di distribuire. Rimane il passa parola nella speranza che questa mia e le altre recensioni possano, se non altro, stimolarne l’interesse e auspicarne la divulgazione.

 

 

 

 

 

 

 

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