Regia di Carlos Reygadas vedi scheda film
Sono ormai passati quasi dieci anni da quando – nel 2007 – “Luz silenciosa” vinse a Cannes il prestigioso premio per la miglior regia, ed è scandaloso che in tutto questo tempo non ci sia stato qui in Italia un pur minimo interesse atto a garantire una adeguata distribuzione in sala a questa straordinaria opera. Del resto l’intera produzione del regista (fatta forse eccezione per “Battaglia nel cielo”) nonostante i consensi internazionali, da noi è stata praticamente ignorata (o confinata ai margini dell’invisibile)i, tanto che anche per quel che mi riguarda, questa è stata la prima e unica occasione che ho avuto per confrontarmi con il suo cinema, e devo ringraziare per questo il web e FilmTv che me ne hanno offerto la possibilità.
Posso allora semplicemente dire che sono rimasto davvero folgorato, e non tanto per l’accorata vicenda umana che racconta quanto per la forma scelta per la sua rappresentazione che ben si coniuga con quel titolo altrettanto ammaliante che Reygadas ha voluto dare alla sua pellicola. Mi riferisco a quella abbacinante “Luz silenciosa” che attraversa tutto il film (così come lo apre e lo chiude), talmente intensa e misteriosa da rischiare davvero di accecare gli occhi (il grande schermo sarebbe l’ideale per tanta esuberanza visiva) e obnubilare la mente di chi guarda.
Questa terza opera di Reygadas (che è poi anche quella che lo ha davvero consacrato nell’Olimpo dei grandi) arrivata ben sette anni dopo la sua precedente fatica, inizia infatti con un prologo a dir pocosontuoso: un piano sequenza di sei minuti in cui la cinepresa magicamente condotta per mano dal regista e dal di lui direttore della fotografia Alexis Zabe, riprende e lentamente segue la maestosa – quasi miracolosa - nascita di un’alba che immaginiamo analoga a quella di ogni altro giorno. Un’alba che soverchia la notte e la sconfigge inondando di luce non solo gli occhi degli spettatori, ma anche questa storia ambientata in una zona rurale dello stato di Chihuahua, Messico settentrionale, che ci parla di una numerosa e tranquilla famiglia di Mennoniti – comunità religiosa anabattista – che rifiuta il progresso, predica un ritorno alle origini, alla semplicità della terra e dei riti quotidiani, e si batte per questo contro le burocratiche regole di una teologia cristiana tendente al paganesimo e alla materialità del suo culto.
Di fatto, abbiamo un uomo di mezz’età (Johan) regolarmente sposato che si innamora però di un’altra donna, la cameriera di un ristorante (Marianne) con cui inizia una relazione clandestina. Anche se il film ci presenta molti personaggi, l’elemento centrale della storia è soprattutto lui: gli altri (amante compresa) sembrano infatti essere solo elementi accessori di contorno. Lo sono sicuramente suo padre, sua moglie Esther (consapevole di un tradimento accettato passivamente) e i numerosi figli, tutte presenze necessarie ma complementari nell’economia della scrittura che invece lascia altrettanto spazio – se non addirittura maggiore – alla maestosità fulgente della natura.
I quasi 145 minuti di durata della pellicola, più che dalla trama fine a se stessa, sono infatti riempiti e supportati dalla struggente bellezza dei particolari: l’incessante frinire degli uccelli quando all’alba il nero buio fitto e totale della notte comincia ad essere vinto dal leggero chiarore che prima appare timidamente all’orizzonte per invadere poi col suo fulgore tutto il cielo; un fremito, un sussurro fra gli alberi, un leggero alito di vento ineffabile e fuggevole che sfiora l’erba dei campi di quelle lande desolate ai confini della civiltà, i rumori – tutti naturali - dell’esistenza quotidiana e dei suoi ritmi.
E’ insomma lo sguardo del regista a regalarci il piacere di eccezionali sequenze di rara (e tutt’altro che sterile) bellezza. Qualche esempio?: scelgo fra i tanti lo struggente segmento del bagno dei bambini nel laghetto e quello altrettanto coinvolgente della veglia funebre. Una sintassi la sua, fatta di pregevolissimi piani sequenza e di primi piani esornativi di figure e paesaggi che esaltano l’occhio e stimolano la sensibilità dello spettatore rendendola particolarmente ricettiva. Del resto il cinema è soprattutto un dispositivo che già per sua natura tende a privilegiare l’immagine, e Reygadas riesce molto bene a rendercelo palese poiché possiede la capacità (rara e preziosa) di rendere avvincenti gli squarci di realtà che riprende e mette in scena (i preparativi per andare a scuola, la preghiera a tavola), che fissa da par suo sulla pellicola riverberandoli però nel tempo e rendendoli così materia viva, tutt’altro che cristallizzata rimanendo comunque sempre lontano anni luce persino da un minimo sospetto di sterile estetismo).
Con lui, la cinepresa si sofferma dunque spesso sugli oggetti (ai quali presta particolare attenzione), entra nelle stanze, riprende paesaggi e luoghi, si sofferma sul lago dove sguazzano i bambini e ci restituisce un’opera che chiede allo spettatore semplicemente la disponibilità a lasciarsi trasportare in un universo inedito in cui il paesaggio sovrasta uomini e cose.
Non vorrei però essere frainteso: non è che qui la storia sia priva d’importanza, tutt’altro, solo che si sublima nell’economia del racconto, spostata in un differente piano di percezione attraverso il quale Reygadas sembra volerci introdurre – smontandolo dall’interno – in un ambiente di immacolata concezione della vita improntata a un rigore di stampo luterano che non impedisce però di farci comprendere appieno il dramma di un uomo integerrimo e rispettoso dei principi morali fondanti della famiglia per il quale lasciare la moglie e i cinque figli che hanno finora reso felice la sua esistenza, è impresa dolorosa anche se necessaria (sul procedere del racconto però mi fermo qui: non voglio assolutamente spoilerare).
Pur avendo visto solo questo film, se tanto mi da tanto (e immagino che sia così) mi azzardo dunque a dire che Reygadas rappresenta uno degli sguardi più interessati al mezzo cinema di tutto il panorama internazionale dove ci sono molti altri nomi importanti che sanno lavorare altrettanto bene sull’immagine che lui sa però trattare in maniera assolutamente inedita e personale.
Con molta umiltà e particolare reverenza, Reygadas ha citato fra i nomi dei suoi ispiratori, quello di Ejzenstejn (per l’utilizzo della musica), di Ozu (per il modo in cui viene usata la luce), di Antonioni e Kiarostami, oltre a fare riferimento ad alcuni film di Abel Ferrara, alle opere degli anni ‘50/’60 di Luis Berlanga e a quelle del dopo guerra di Rossellini. C’è soprattutto molto Dreyer dentro (almeno in questo caso) con un trattamento del miracolo indiscutibilmente ripreso da “Ordet” ma sviluppato in modo autonomo e personalissimo. Insomma, un suggestivo mix di eccellenti riferimenti “artistici” perfettamente metabolizzati e riproposti in un unicum geniale che è diventato il suo inimitabile stile narrativo e di rappresentazione visiva (mi fido di quello che ho letto in giro, visto che io posso esprimermi solo su questo unico suo film che ho visto).
Ci sarebbero tante altre cose da dire, soprattutto si potrebbe durare all’infinito a sperticarsi in lodi e apprezzamenti. Per non correre il rischio di diventare troppo logorroico, mi limito invece a ribadire che questo è grande cinema assolutamente da recuperare e vedere (costantemente sospeso com’è fra sesso e religione, materialità del corpo e leggi dello spirito) e concludo ricordando ancora l’interminabile piano-sequenza che inizia più o meno a dieci minuti dalla fine, perfetta chiusura di un’opera in cui il silenzio divino preferisce punire invece di dare risposte ma che apre comunque a un piccolo barlume di speranza. Un finale magnifico e necessario che ripropone all’inverso (anche nei movimenti della cinepresa che procede a ritroso) la lunga ininterrotta sequenza d’apertura, e ne ribalta il percorso passando dalla fine del giorno al crepuscolo incombente che precede la notte, e in cui per arrivare al buio (intuizione davvero geniale) la luce viene occlusa dalla mano della donna amata.
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