Regia di Gus Van Sant vedi scheda film
Nell’immaginario americano gli Skaters rappresentano la versione aggiornata e decisamente più depressa di quei Surfers che erano entrati nel mito collettivo con l’indimenticabile film di John Milius “Un mercoledì da leoni”.. Stacey Peralta c’è li aveva fatti conoscere nel bel documentario , Paranoid Park li ripropone come sfondo (nel parco il giovane protagonista assiste e partecipa alle esibizione degli Skaters che li si riuniscono) di un esistenza adolescenziale irrimediabilmente segnata dall’evento luttuoso.Ancora uno spaccato sulla gioventù americana siglata da uno dei suoi massimi cantori , quel Gus Van Sant che sembra aver trovato la formula definitiva per un cinema fatto di neorealismo produttivo (impiego di attori non professionisti, realizzazione autarchica, lancio promozionale attraverso la vetrina festivaliera) e confezione Art movie (solusioni stilistiche sofisticate, regia demiurgica, predilezione per soggetti “difficili”). In realtà Paranoid park, nonostante la presenza di Cristopher Doyle, ex fotografo di Kar Wai e peyote vivente del cinema alternativo, a suo agio con gli sfasamenti temporali e le dinamiche corporee del mondo giovanile, appare un pretesto per riproporre, con poche novità (impianto narrativo più coerente, accentuazione della componente onirica ) la poetica di un adolescenza bruciata dall’assurdità del mondo e dall’ assenza di modelli di riferimento che non siano quelli dell’anarchismo familare e dell’incomunicabilità generazionale. Van Sant come al solito filma in libertà, costruendo intorno al suo personaggio, vero ed unico protagonista del film - quasi un archetipo dell’uomo rinascimentale per la capacità di restare sempre al centro e di fronte all’inquadratura - ,un patcwork di voci fuori campo e corpi fuori fuoco; spalle, nuche, figure a tre quarti o sguardi di infilata definiscono, in contrapposizione alla contemplazione principale, l’assenza emozionale che impregna lo spirito dell’opera. La sensazione però è quella di un cinema autoreferenziale che finisce per essere vittima di se stesso per la sua incapacità di andare oltre la forma, di non oltrepassare la cortina di apatia in cui si rifugiano i suoi personaggi. L’osservazione del mondo giovanile rimane acerba, non produce effetti ma neanche, ed è quello che è più grave, una parvenza di storia che ne giustifichi la messa in scena. Più che un approdo, una deriva
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