Regia di Gus Van Sant vedi scheda film
Gus Van Sant vuole raccontare un modo di sentirsi diverso, incompreso, altro rispetto alla realtà che ci circonda, e per farlo cala totalmente il proprio sguardo al livello del suo protagonista, Alex, non a caso uno skater, un adolescente, un emarginato; l’incompatibilità con l’ambiente che lo circonda si traduce visivamente nella grana nostalgica, quasi sognante, di un luogo reale e di fuga, il Paranoid Park che dà titolo al film, mentre il montaggio sonoro lavora sullo straniamento del personaggio. Le figure degli adulti, spesso tenute in secondo piano, lasciate fuori fuoco o addirittura decapitate dall’inquadratura, comunque vengono tenute lontane da Alex, distanziate da un corridoio o anche solo dallo stipite di una porta.
Il regista rimane emotivamente vicino al giovane protagonista, genuinamente sincero nel lasciare intravedere le difficoltà insite nella mancanza di figure adulte forti e presenti nella sua vita, inamovibile anche nel momento della tragedia, uno scherzo del destino piuttosto che una colpa. Van Sant sfrutta la natura sperimentale dell’opera per potersi immergere il più possibile nella realtà che sarebbe poi andato a filmare: la scelta di lavorare con attori non professionisti (cercati anche su MySpace) e le immagini documentaristiche sugli skater vanno proprio in quella direzione, alla ricerca di quella verità. Paranoid Park è un’opera capace di far empatizzare lo spettatore con il protagonista senza per questo mai divenire moralmente ambiguo e, soprattutto, portando avanti l’interesse intellettuale dell’autore, già palesato in modalità simili con il precedente Elephant, nella sua ricerca dell’orrore sopito e di dove si nasconde.
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