Regia di James Gray vedi scheda film
Proprio pochissimi giorni fa avevo visto un thriller americano, "Prospettive di un delitto" che si configura idealmente come l'esatto contrario di questo "I padroni della notte". Nel senso che i due film, pur entrambi thriller di produzione statunitense, sono stati realizzati con criteri opposti. Il primo è fracassone, inutilmente complicato nella sceneggiatura, con un protagonista eroe che fa miracoli, mentre l'altro è la quintessenza della semplicità, realizzato con stile sobrio e con protagonista un perdente. Forse è anche per questo che il film spiazza un pò, perchè un cinema così "all'antica" non è piu' tanto presente sui nostri schermi. Storia semplice, fatta di sentimenti elementari e schietti. Due fratelli che paiono agli antipodi l'uno dell'altro: uno poliziotto virtuoso e pluripremiato, l'altro in ascesa nel sottobosco della criminalità mafiosa; quest'ultimo è anche direttore di sala di un locale notturno che appartiene al potente e spietato "giro" della mafia russa. Il padre dei due ragazzi riveste un alto ruolo di comando nella polizia di New York ed è giustamente preoccupato per il figlio "degenere", dato che in quel momento (fine anni '80), in ambito criminale, grossi mutamenti stavano investendo il mercato dell'eroina, che rendevano il traffico di droga sempre piu' redditizio ma anche molto piu' pericoloso e spietato. Che poi, bisogna anche dire che il ragazzo non è che sia di indole malvagia, è solo mosso dall'ambizione di guadagni facili e disposto a farsi allettare da tutto un mondo di promesse luccicanti che gli vengono prospettate per convincerlo a fare carriera nel business della malavita organizzata. La sceneggiatura (bisogna dirlo, in maniera prevedibile, ma non c'è niente di male) fa presto incrociare fatalmente i percorsi dei due ragazzi, e questo succede quando il fratello poliziotto (Jo) conduce un'operazione che, finalizzata all'arresto di un super spacciatore russo, si conclude con una retata improvvisa proprio dentro al locale gestito dall'altro fratello (Bobby), che la prende male, reagisce con rabbia e con disprezzo. Ma la risposta della potentissima mafia sovietica non si fa attendere e si manifesta dopo pochi giorni con un agguato a Jo, il quale viene colpito da un killer che gli spara al volto perforandogli una mandibola. Questo evento fa vacillare a Bobby le proprie certezze, lo induce a riflettere su quello che sta facendo della propria vita e soprattutto gli fa sorgere i primi dubbi sulla correttezza e sui princìpi che animano la gente per la quale lavora. A quel punto, Bobby, messo di fronte ad una realtà che prima si rifiutava di vedere, prende una decisione importante, esponendosi con coraggio in prima persona: farà l'infiltrato per conto della polizia in quell'universo dello spaccio ad alti livelli che lui conosce piuttosto bene. Ma qualcosa andrà storto, e la vicenda prenderà una piega talmente drammatica che l'odio di Bobby verso quell'ambiente mafioso in cui prima aveva "sguazzato", diventerà furioso, e lo trasformerà in una sorta di macchina da guerra in nome della Legge. Come si vede, una storia decisamente "noir", disegnata a tinte forti. Un "drammone". Ed è anche per questo che se ne percepisce un modo di fare cinema anti-moderno, che non ricorre a trucchi visivi, a furbizie di sorta, ma è qualcosa di essenziale e di concreto. Apro solo una piccola parentesi per segnalare un dettaglio: per chi ha visto "La promessa dell'assassino" è curioso notare la forte somiglianza, se non fisica almeno di caratterizzazione, fra il proprietario del ristorante nel film di Cronenberg e il capomafia russo che qui possiede il locale notturno: entrambe figure di insospettabili ed operosi anziani sovietici apparentemente innocui ma in realtà testimoni (ed artefici) di terribili segreti criminosi. Interessante poi il gioco dell'invertire il senso dei ritratti psicologici dei due fratelli: Bobby che perde via via i connotati di negatività che lo caratterizzavano all'inizio della vicenda, grazie ai sussulti di consapevolezza che progressivamente lo svegliano dal suo torpore, mentre Jo ad un certo punto confessa che la sua carriera in polizia non è da accreditare ad una presunta vocazione ma ad una scelta fatta solo per non deludere il padre. Qualcuno ha evocato frammenti di Scorsese; l'accostamento mi pare ardito ed improprio, dato lo stile molto diverso: qui non c'è la poesia di Scorsese ma solo sentòre di tragedia, tinte cupe, che non si stemperano mai nel grottesco o nell'ironìa. Il tutto sull'altrettanto cupo sfondo di una New York buia, piovosa, minacciosa. Deprimente? assolutamente no, perchè quest'anima nera è proprio la cifra stilistica del film, la sua forza. Accennavo prima all'assenza di effetti visivi spettacolari; c'è una sequenza esemplare in questo senso, quella dell'inseguimento in auto (con sparatoria): si tratta di una scena emozionante e molto ben realizzata, ma che ha un sapore classico che nulla ha a che vedere con gli inseguimenti (inverosimili, fracassoni, super concitati, stracolmi di esplosioni ed auto che passano sopra e sotto i tir) a cui siamo abituati da un cinema che spesso vuole solo stupire. Mi verrebbe quasi da dire che si respira un'aria "vintage" in questo film, e, benchè sia collocato verso la fine degli '80, si percepisce un'impronta stile anni '70. Il regista James Gray, all'ultimo Festival di Cannes ha incassato la freddezza ostile dei critici. Certo, con un soggetto simile Michael Mann o Cronenberg avrebbero tirato fuori uno dei loro capolavori, ma tuttavia anche qui si possono individuare riferimenti degnissimi, quali Friedkin o Frankenheimer, insomma un cinema che ha il solo difetto (per il gusto di certi critici) di essere un pò...fuori moda. Il cast è straordinario. Detto per inciso, i due protagonisti (Joaquin Phoenix e Mark Wahlberg) sono anche produttori del film, segno questo, oltre che del loro coinvolgimento nel progetto, anche dell'affiatamento raggiunto col regista. Davvero due pregevoli performances, e soprattutto Walhberg pare che si sforzi di riscattare certe caratterizzazioni un pò bidimensionali e "rambesche" a cui ci aveva abituato in passato. Robert Duval star conclamata hollywoodiana offre la solita recitazione autorevole. Ma il film ci riserva anche una sorpresa: la presenza (dignitosa, in un ruolo secondario) del redivivo Tony Musante. E concludo con la sola nota stonata del film che, invece, è tutt'altro che una sorpresa: l'incapacità a recitare della solita Eva Mendes, che ci era del resto già ampiamente nota. Un cenno alla colonna sonora, deliziosamente anni 70/80, in cui spiccano Blondie, David Bowie e Clash. Nota finale: proprio ieri sera ho visto il nuovo (capo)lavoro del vecchio Sidney Lumet. Eccone un altro che insiste a fare film "all'antica". Forse James Gray è di quella scuola lì. E Lumet è un'OTTIMA scuola.
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