"Se le regole che hai seguito ti hanno portato a questo punto, a che servivano quelle regole?"
Anton Chigurh.
"No country for old men", un film sulla decomposizione morale, etica, civile di un paese che è di noi tutti; un film su una presa di coscienza retrospettiva, sul senso di desolazione e d'impotenza che ingabbia chi se ne ravvede. "Nessun paese è per uomini vecchi" o, se si vuole, "Non ci sono paesi per uomini vecchi", recita il titolo. Si va avanti, lasciandosi alle spalle quanto di meglio il passato ha profuso, raccogliendo sulla strada briciole di virtù che l'uomo, quello giovane, sgretola definitivamente. Sete di possesso, violenza senza rimorso, egocentrismo, perdita di antichi valori, psicopatia, alcuni dei punti ben scansionati in questa pellicola, magistralmente diretta dai fratelli Coen. Tipici risultano i loro campi lunghissimi e lunghi, ampi paesaggi ripresi sapientemente per rispondere a precise scelte narrative. Perché qui i paesaggi narrano, preannunciano, mettono in attesa lo spettatore, aumentandone la tensione visiva, coinvolgendo i sensi tutti; e fanno anche un po' da chiusa a passaggi sconvolgenti, quiete dopo la tempesta e insieme oracolo di sventure ulteriori. Il silenzio, la staticità, il buio incombente, un'alba che si affaccia timidamente diventano sottili strumenti retorici, di un'eco emozionale spiazzante. Si notino, ancora, i colori utilizzati, anche quelli, a ben vedere,narrano eccome. Le tonalità caldo-scure predominanti raccontano bene di un mondo alla deriva, di un vecchio e stanco Texas, di un Messico lercio e subdolo. Ogni cosa, quindi,amplia la vicenda che i due fratelli hanno scelto di mettere in scena e che è tratta dal famoso romanzo omonimo di Cormarc McCarthy, vincitore, tra l'altro,del Premio Pulitzer.
Vicenda che si sviluppa tutta intorno ad una lauta somma di denaro sporco e il suo recupero da parte di Anthon Chigurh, un allucinato cecchino psicopatico con il volto di Javier Bardem. Bardem, un interprete superiore, raffinato. Per lui ogni interpretazione è il risultato di una lunga e faticosa catarsi interiore, un processo di totale immedesimazione. Tale è il suo lavoro empatico sul personaggio da confondere persino lo spettatore sulla sua reale, personale natura. Non si dice niente del trascorso di Anthon se non della sua inarrestabile voglia di uccidere al di là di ogni supposizione, un gioco, forse, per lui, perverso e agghiacciante, unico, apparente, motivo di vita. La morte è per lui un percorso obbligato alla quale concedere una saltuaria scappatoia con il lancio di una monetina che spinge la vittima ad una scelta obbligata: " Devi scegliere!". Ma di questo nero, marcio che l'assassino si porta dentro non si intravede nessuna origine se non sensazioni, stati d'animo trasmessi eccezionalmente dal nostro interprete. Un'angoscia paralizzante sembra avvolgere Anthon, un permanente stato catatonico che lo fa muovere a scatti a mo' di un automa. Non ci sono parole per esprimere la grandezza di Javier, non a caso, vincitore con questo film di un meritatissimo Premio Oscar.
Pur non essendo protagonista principale, di fatto lo è, riducendo ad ombre quelli che sullo script lo sono realmente. Né, d'altra parte, risulta assolutamente criticabile la prova di Tommy Lee Jones, che veste benissimo i panni di un nostalgico quanto impotente sceriffo, memore di un tempo migliore che fu e che rimpiange, anzi. Jones sembra portare sul proprio volto rugoso quel tempo andato, ogni ruga come un solco scavato nell'animo; quel volto, i suoi silenzi dicono più di ogni battuta.Le sue performance sono sempre di un certo spessore. Non si potrebbe dire lo stesso per Josh Brolin che con il suo Llewelyn Moss, saldatore texano reduce dalla guerra in Vietnam, raggiunge, diciamo, un buon risultato, niente di più. Ma rientra tutto perfettamente nel progetto, niente stona. I Coen sanno bene come accordare il loro strumento. E gli interpreti vengono guidati e orchestrati in maniera ineccepibile, attorniati dall'eccezionale fotografia di Roger Deakins, quello del Grande Lebowski, per intenderci.
Una partitura filmica armonica, una struttura equilibrata, un ritmo coerente e continuo, privo di stasi e mutamenti stagnanti, fanno di quest'opera un incanto dalla perdurante potenza magnetica.
Un'analisi fredda, raccapricciante che termina con il racconto di un sogno...sarà mica, per davvero, tutta un sogno questa "dannata commedia umana" che rappresentiamo e nella quale ci specchiamo? Una realtà onirica che, in cuor suo lo sceriffo preferirebbe e chi non lo farebbe? Avvertendo come incombente la catastrofica fine di un'umanità ormai troppo avariata, guasta?
"Penso che quando non si dice più «grazie» e «per favore» la fine è vicina". E quella fine è maledettamente vicina.
(Pimentella)
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