Regia di Gore Verbinski vedi scheda film
Parte il terzo episodio della saga del capitano Sparrow e già arrivano i dubbi: ma come era andato a finire il secondo episodio, se mai aveva avuto una fine ? Già, perché la cosa bizzarra di questo terzo film è che potrebbe benissimo essere un film a se stante, e non solo per le molte confusioni della sceneggiatura che raramente mostra nessi forti con i precedenti film, ma anche perché “Pirati dei Caraibi 3” sembra vivere di una vita propria, senza prima né dopo, né passato né futuro, un unico lungo presente artificioso, fatto di effetti speciali (va da sé, efficaci): un enorme giocattolo tanto luminescente quanto ultimamente vacuo. Il difetto maggiore di “Pirati 3” è infatti proprio la sceneggiatura che, forse anche per la sovrapposizione della lavorazione del secondo episodio, girato in contemporanea, appare a dir poco confusa e macchinosa: spreca inspiegabilmente l’attesa dell’”altro mondo” (quello in cui è rinchiuso Jack e a cui il titolo fa riferimento) con una semplice ellissi, dopo un volo oltre un’enorme cascata; procede per accumulo di situazioni, personaggi, cattivi e buoni, voltafaccia e tradimenti continui perdendo però di vista parecchi caratteri che avrebbero potuto essere più curati e più potenziati narrativamente (la “stregonessa”, il padre di Will, lo stesso Davy Jones); cerca di compensare il forte immaginario gotico derivante dalla formazione horror del regista con un’ironia che, complice anche parecchie gag poco riuscite, strappa con difficoltà la risata. L’impressione, insomma, è che per fare un kolossal non bastino grossi attori, grossi effetti speciali, grosse battaglie, un trucco e dei costumi al di sopra della media. Serve anche una buona scrittura che non disperda i buoni spunti e le sequenze suggestive (l’isolamento folle di Sparrow) o che non riduca a macchiette personaggi potenzialmente “forti” (un esempio su tutti: la mera rassegna mostruosa dei capitani della Fratellanza), ma abbia il coraggio di affondare su magari meno personaggi e meno storie, ma di conchiuderle, andando oltre il semplice accenno di personaggi e situazioni. E invece il regista, il pur capace Gore Verbinski, per usare una metafora marinara, tira i remi in barca: si affida ai giochi d’anca di Johnny Depp, al carisma (a dire il vero, un po’ pallido) della coppia protagonista, alla comparsata di Keith Richards, su cui si fatica a dividere ciò che è vero e ciò che è trucco. E lascia in sospeso tutto: per metà film non si capisce cosa diavolo debbano fare i protagonisti, tra scrigni, navi perdute e poi recuperati, cuori imprigionati e profezie apocalittiche, e il tutto è giustapposto senza grande lucidità anche in sede di montaggio, tanto che per alcuni momenti abbiamo pensato di vedere un film girato col materiale di scarto dell’episodio precedente. Viene anche da chiedersi se sia veramente una saga i Pirati dei Caraibi, e non un semplice, variazione (confusa) sul tema. E non è ancora finita.
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