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Zodiac

Regia di David Fincher vedi scheda film

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La recensione su Zodiac

di ROTOTOM
8 stelle

Fincher torna sul luogo del delitto, San Francisco 1969, torna nei luoghi cinematografici a lui cari, così notturni e mortali come torna nei luoghi della città in cui realmente ha trascorso quei giorni nei tempi della sua infanzia. Forse era uno di quei bambini che Zodiac, il serial killer che uccideva coppiette e scriveva lettere cifrate ai giornali, aveva annunciato di uccidere a fucilate, mentre avrebbero lasciato uno scuolabus giallo in panne, come scrisse in una delirante pubblica minaccia. E’ così con grande rispetto che il molto talentuoso regista americano si avvicina alla storia che sembra nata, cresciuta e scritta giusto per lui. Zodiac non fu mai catturato, o meglio non fu possibile provare i necessari indizi che inchiodassero alle proprie responsabilità il sospettato principale, tra le dozzine di possibilità vagliate dalla polizia dell’epoca e dell’epoca successiva e di quella successiva ancora, film, libri e saggi di criminologia compresi.

Il rispetto che Fincher dedica a questo personaggio è soprattutto per la cifra stilistica adottata per narrarne la storia. Così se in “Seven” e “Fight club” il motore del film era il meccanismo e la necessità urgente di chiudere una splendida progressione drammatica con l’identificazione certa e risolutiva del colpevole; abbandonando il virtuosismo gotico dell’irrisolto “Panic Room” in cui la maestria delle riprese e l’atomizzazione dei particolari fagocitava il film a favore di un compiaciuto omaggio autoreferenziale; in Zodiac prevale la necessità di costruire un solido impianto composto di “fatti” acquisiti dai documenti investigativi per poi completare il tutto con tutta la difficoltosa ricostruzione delle principali linee investigative che portano ad offrire non una certezza ma almeno l’ipotesi più solida sull’identità del colpevole. In questo senso ne esce un film rigoroso, maturo, rispettoso appunto della storia, dei suoi protagonisti, delle vite rovinate delle vittime e delle persone che furono coinvolte nelle indagini, accomunati da un’ossessione morbosa per il caso che prevaricò il dovere professionale.

Fincher abbandona i virtuosismi di macchina in favore di una messa in scena più tradizionale, narrando su indicazioni altrui o testimonianze sono assenti soggettive dell’assassino in azione, il pubblico non deve immedesimarsi nell’omicida come in un thriller ma deve “assistere” ad una ricostruzione, la più rigorosa possibile. Da qui le glaciali scene dei brutali omicidi di cui si rese certamente responsabile Zodiac, il tutto verificato sul campo da mesi di sopralluoghi sui veri luoghi dei fatti prima di girare il film, scene veloci e senza alcuna concessione alla spettacolarizzazione, alla ricerca di una qualsiasi empatia con il pubblico, molto molto realistiche. Finzione che ricalca alla perfezione la realtà, la doppia ricostruendone esattamente il clima e l’ambientazione utilizzando una fotografia “seventies”, le pettinature, gli abiti, la colonna sonora, le auto circolanti in un’ossessiva ricerca della perfezione che apre le porte ai due temi principali del film.

La doppiezza e appunto, l’ossessione. IL film è un film doppio, rappresenta l’anima di Seven, tutto ciò che non ci era stato dato da vedere, il retro di un capolavoro del genere thriller, le indagini, i fallimenti, soprattutto la stampa che deve tirare una riga tra i totali di etica e tiratura facendo in modo che siano in pareggio, Zodiac è forse il primo mass murder da mass media, il primo che capì le immense potenzialità dei mezzi di comunicazione e dalla protezione implicita che derivava il manipolarne le caratteristiche per ottenere caos e visibilità. L’indiziato è ambidestro, scrive le lettere cifrate in modo che non siano possibili riscontri calligrafici, il suo desiderio di essere smascherato (caratteristica che accomuna tutti gli omicidi seriali) si scompone in una brama di popolarità che lo soddisfa e nel contempo gli evita di fare errori. La realtà si sdoppia nella finzione quando tutti gli interessati al caso si ritrovano al cinema a vedere “Dirty Harry” di Clint Eastwood ispirato proprio all’assassino dello zodiaco. Zodiac è un film doppio perché nel momento in cui sembra finisca, con l’arenarsi delle prime investigazioni, ricomincia praticamente da capo, a riflettori spenti, a cadaveri freddi e archivi chiusi, ricomincia a collegare i fili, pazientemente scena dopo scena, scavando nel passato, nelle lettere cifrate, incasellando i personaggi nei loro ruoli, rallentando necessariamente il ritmo ma riuscendo a tenere sempre la tensione ad un buon livello. Di fatto Zodiac è specchio dei tempi, dei suoi tempi, del mondo in trasformazione, personaggio che brama la globalità molto prima che la globalizzazione prenda di fatto a marciare sulla società. I personaggi sono divisi da una bramosia di scoprire il colpevole che si scinde tra il dovere e il piacere di scivolare nell’oblio di un mistero mostruoso, ossessione che rovina le loro vite, come quella di Zodiac rovina quelle delle sue vittime.

L’ossessione è quella del regista per la notte, le luci artificiali che creano più ombre che luminosità confondendo tra loro i corpi, i sospetti, i volti, le intenzioni. L’urbana San Francisco è un reticolo di vene in coprifuoco macchiata da nei di semafori, poche insegne al neon, luci d’auto. L’ossessione di Zodiac, uccidere. Anche se forse solo attività marginale alla necessità di essere popolare, di incutere timore e diffondere il panico. Per David Toschi, investigatore, (Mark Ruffalo), Paul Avery, cronista, (Robert Downey Jr) e Robert Graysmith (Jake Gyllenhaal), vignettista, la discesa nell’ossessività della ricerca dell’assassino risulterà distruttiva. Ed è proprio qui che la direzione di Fincher si fa sontuosa, sovrapponendo gli indizi, moltiplicando le facce e le piste investigative. Raddoppiando le trame in parallelismi sicuramente non facili da seguire ma puntuali per comprendere la discesa nel meandri della mente umana, dei suoi protagonisti distruttori delle loro vite, delle loro famiglie proprio come l’assassino seriale nella sua folla distrugge le vite e le famiglie altrui. Doppiezza e ossessione.
La chiusura è una sospensione, un’interpretazione dei fatti visto che il film non si prefigge la circolarità narrativa a soluzione dell’assunto, quanto piuttosto la ricerca dell’uomo nella fallace ricerca della verità, nel suo inchinarsi alle regole della società anche quando l’evidenza dimostrerebbe tutt’altro, la ragione sottomessa dalle regole, il male protetto da un perverso reticolo di norme che imbrigliano la verità in una matassa indistinta di indizi, sospetti, ombre, vicoli, facce, caos che non ne consentono il completo svelamento. Ottimo film, quindi, sorretto da attori tutti in parte, (Cloe Sevigny e Brian Cox oltre ai già citati )e alcune scene veramente ben azzeccate. In particolare l’omicidio di una coppietta sulle rive di un lago, in pieno sole in cui il killer si presenta intabarrato di nero, con al collo il proprio simbolo come un supereroe al contrario, ombra e buco nero di una giornata luminosa. E la magnifica scena del sottoscala di un indiziato, tra ombre espressioniste alla Lang e tensione Hitchkockiana in cui si manifesta tutta la paura che una verità tanto agognata poiché ipoteticamente lontana, può provocare nel momento in cui si crede di averla di fronte. Da non perdere.

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