Regia di Martin Weisz vedi scheda film
I film di Wes Craven non salvano il culo ai militari. Questo si sa, come si sa che uno dei Maestri del New horror americano non salva il culo alle istituzioni borghesi. Nel primo capitolo del dittico sulle colline che ci guardano, si attaccava la famiglia e la si vivisezionava per vedere quando e quanto sarebbe diventata essa stessa predatrice e sanguinaria come i propri aguzzini. Nel secondo capitolo, è invece la volta della “famiglia militare”. Qui abbiamo la Guardia Nazionale americana, tra esaltati, pacifisti e perditempo, che si trova a combattere un nemico partorito dall’entourage militare stesso. Stiamo parlando ovviamente dei due film recenti, e non degli originali di Craven, il cui secondo episodio protagonizzava semplici motociclisti. Per comprendere l’importanza di questo secondo remake bisogna capire cosa c’è dietro. Prima di tutto è remake o sequel? A tutti gli effetti dovrebbe essere il remake del secondo episodio dei due fatti da Craven nei ’70, ma invece non lo è perché non ripercorre la trama del precedente. Allora è sequel del remake di Aja, e come si può chiamare il sequel di un remake? Lasciando perdere queste etichettature che poi tolgono tutto il senso di una produzione cinematografica che vuole dire altro, sarà meglio notare la cosa più importante: mentre il remake di Alexandre Aja seguiva la sceneggiatura di Wes Craven del ’77, anno del primo “Le Colline Hanno gli Occhi”, aggiungendo giusto qualcosa di personale nei moduli narrativi e nell’impianto visivo, di cui il regista francese è esperto, nonché bravo; questo secondo episodio diretto dal tedesco Martin Weiz è basato su una sceneggiatura originale dello stesso Wes Craven in coppia col figlio Johnathan. Questo è il segreto di un film che funziona: che dietro c’è Craven, e non come solo produttore.
Il film è girato bene, va detto. Martin Weiz segue come un bravo alunno la lezione estetica del cinema di oggi, fatto di grandi impatti fotografici, di accellerazioni, montaggio sincopato e altre diavolerie che il buon Wes all’epoca non conosceva, riusciendo comunque a centrare il bersaglio. Ma ciò che del film colpisce di più, non è tanto la regia, ma la modulazione narrativa, dalle situazioni ai personaggi, agli snodi decisivi ai colpi di scena e ai commenti autoriali dello stesso Wes, che si vedono benissimo. C’è una sceneggiatura che si potrebbe dire arrivi direttamente dai ’70, scritta da un Craven che da un po’ è lontano da un vero horror grandguignolesco e che forse a questo giro s’è pure divertito. Ritorna il paesaggio estraniante (il Marocco di Ouarzazate), come in Aja; torna la claustrofobia e l’agorafobia, o se volete la claustrofobia per gli spazi aperti; torna l’individualismo che si ritorce contro; torna anche l’individualismo che salva; tornano i militari e con loro tutto il loro piccolo mondo di testosterone, vendette, violenze represse e sessualità frustrata; torna l’antieroe (il più bravo di tutti, Michael McMillian, classe ’78) spaesato, pacifista, che non ne imbrocca una, che se ne vuole scappare, che rimane defilato per buona parte del film lasciando alla compagna bionda il ruolo di leader, ma che alla fine è proprio lui il maschio che sopravvive agli altri, ed è lui che reincarna il topos craveniano dell’uomo mite che si trasforma in belva assassina (che era poi il concetto alla base sia de “L’Ultima Casa a Sinistra” che del primo “Le Colline Hanno gli Occhi”), uccidendo prima, e spappolandogli poi il cervello all’uomo-roccia, uno dei deformi del deserto. Grazie a Wes, l’alternanza dell’accecante deserto nel primo tempo e degli oscuri e tutti uguali vicoli bui del secondo, diventa l’alternanza del gioco dei personaggi, anch’essi luce e ombra di se stessi, e di ciò che rappresentano. Il militare esaltato, parafrasato spesso come un Rambo di noialtri, ha involuzioni umane, che poi tornano ad essere esaltati atti di violenza. Il pacifista Napoleon, il personaggio più riuscito, il bravo Michael McMillian, che è capitato lì per caso nell’esercito, da uomo mite diventa violento, un po’ come il Cillian Murphy di “28 Giorni Dopo”, spettacolare apologo di Danny Boyle sull’immondizzaio umano in cui stiamo sociologicamente trasformando il mondo. Gli attori nel complesso sono modesti, come la regia. Il punto di forza è una sceneggiatura che, pur minimale che sia e pur stereotipizzando i personaggi, riesce a funzionare, e sa creare le basi testuali per portare poi in immagini la fiaba nera di Craven. Sono sostenitore di questa idea: nella fiaba ciò che conta è la rappresentabilità semplice, da non confondersi con la “telefonata” di poco mestiere. I film horror sono della fiabe dopotutto, sono i cugini delle paure ataviche dei Grimm, di Perrault e anche di Andersen, sebbene quest’ultimo sia dei tre il più autoriale. E come fiabe, gli horror devono puntare tutto sulla stilizzazione. C’è anche chi sa fare horror che si elevano a capolavori cinematografici, con grande consapevolezza del proprio ruolo immaginifico, ma altrettanto validi sono quegli horror, come questo di Weiz/Craven, che puntano tutto sul minimalismo incisivo, che entra nell’immaginario meglio che tanti altri fronzoli intellettuali.
Chiudo sottolineando due riflessioni brevi. Il gruppo di protagonisti militari, si ritrova nell’inferno vero e proprio dopo una simulazione di guerra che li aveva esaltati. Non è faciloneria, ma una giustapposizione importante, dal significante facile casomai, ma dal significato importante. Craven forse ci vuol dire che l’orrore è un altro, figlioli. Voi, che esaltati vi arruolate nei marines per spaccare il culo al nemico (?), non sapete cosa sia il vero male, e credete di essere degli eroi, dei patrioti. E infatti Wes non salva il culo ai militari, come faceva anche e più radicalmente, il Neil Marshall di “Dog Soldiers”. Salva il culo soltanto al pacifista e alle due femmine, ovvero a due madri, due generatrici, due esseri che possono ricreare, forse nella speranza di un mondo migliore. E questa dei sopravvissuti era la seconda riflessione che ho incastrato nella prima, che ora continuo. L’attacco all’istituzione militare è quindi impregnato pure di irriverenza: la gag del cesso, la facilità con cui cadono preda dei loro assassini. Ma la cosa più importante è che questo, ipotetico, attacco antimilitarista (salvato solo dal “Non sono contro tutte le guerre” del pacifista McMillian) è un attacco che nasce dalle pagine stesse della diegesi. É la storia, è il testo, più che l’apporto filmico, ad irriverire ai militari. Infatti loro combattono un “nemico” (e la cultura del nemico è tipica americana, nessun altro popolo l’ha esasperata a tal punto da farla diventare “Cultura”), combattono un nemico che l’esercito ha creato con i suoi esperimenti radioattivi in quel ormai infaustamente celebre Settore 16, che ormai fa più paura della famosa Area 51. In poche parole, il nemico ce l’avevano in casa. Vi ricorda nulla l’11 settembre? Lo stesso capitano Reading, ormai spacciato e prossimo al suicidio, rivelerà ai ragazzi che a tenerlo sveglio la notte non è il nemico terrorista che loro imparano a combattere e ad odiare, bensì quegli esseri deformi nati dal superonismo militare. Si spara un colpo ridendo, e prevedendo per l’equipe della Guardia Nazionale tanto, ma tanto dolore.
Un ultima considerazione: l’uomo-roccia. Che non sia l’opposizione immaginifica di una mitologia tutta americana sui supereroi? Come c’è un Uomo Roccia che fa parte dell’immaginario correttivo, buonista e istituzionale del buon americano medio, c’è un uomo-roccia perverso, deforme, nato dagli errori onnipotenti del militarismo e dalla sua esaltazione. Sarebbe a dire che come c’è un America buonista, accecata dall’integralismo religioso-borghese, dispensatrice di falsi sorrisi vincenti e di successo, c’è un’America deforme, come un’immagine esperpentica, riflesso di uno specchio concavo. Questa America è il marcio che si vede e si respira e che tutti ignorano, soprattutto i media filogovernativi, come Hollywood. Mentre l’America religioso-borghese è quella bella e pulita fuori, ma marcia dentro. Quella dei sepolcri imbiancati, con dentro il lercio dei cadaveri. Wes Craven fa parte invece di una terza America, di quell’America che dice di “NO”, e che crea mostri per il gusto di inorridire i benpensanti. Quell’America dei “cattivi ragazzi” che dai ’60 ad oggi, seppur invecchiati, sanno ancora mettersi contro il potere. Un potere che dalle loro parti è diventato Cultura. Siamo lontanti, purtroppo, dall’irriverenza politica dei ’70, ma Wes Craven non delude mai, se libero di produrre.
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