Regia di Olivier Dahan vedi scheda film
“È mia!” esulta disperata l’esule in patria di se stessa Edith Piaf al primo ascolto di Non, Je Ne Regrette Rien. Proprio questo brano fa parte della ristretta categoria di canzoni che raccontano di un personaggio più di mille biografie (non autorizzate). Non è un caso che il momento più struggente del biopic sulla più celebre cantante francese sia l’esecuzione di Non, Je Ne Regrette Rien all’Olympia di Parigi. Sarà forse per la paurosa interpretazione di Marion Cotillard, più Piaf della Piaf con il corpo martoriato dall’artrite e dagli eccessi e lo spirito disperatamente ed inutilmente combattente. Ma quei tre minuti finali sono assolutamente impressionanti per l’atmosfera da canto del cigno (anzi, del passerotto) che avvolge la scena, per gli sguardi del pubblico, per quanto diamine è tremendamente bella quella canzone. Forse quei tre minuti valgono quanto centoquaranta minuti di film. Con ciò che voglio dire? Voglio dire che Le vie en rose (praticamente, secondo la distribuzione italiana, se noi facessimo un film su Mia Martini dovremmo chiamarlo Almeno tu nell’universo) non è certamente un film indimenticabile, e i motivi sono ben identificabili in due campi: contaminazione tra generi e stile. L’idea di fondo di unire il racconto di una vita che sembra un romanzo con il tono del mèlo d’altri tempi (una vita in rosa scuro quasi nero, porella) è molto interessante, ma i risultati non sono probabilmente eccelsi.
Se da una parte non si può che lodare il tentativo di non-romanzare la storia, ma di raccontarla semplicemente in modo romanzesco, dall’altra non si può tacere sul didascalismo ben evidente nell’esposizione dei fatti e sul mancato raggiungimento di una sintesi tra le componenti in campo (esempio: l’incontro di pugilato per il titolo di campione del mondo, stilisticamente considerabile puro cinema anacronisticamente sbagliato). Dopotutto, però, condensare in due ore abbondanti un’esistenza travagliatissima e condita da tutti gli ingredienti per renderla più grande della vita stessa (infanzia difficile, successo clamoroso, emarginazione artistica, resurrezioni varie, tossicodipendenza, parecchi eccessi, tragica morte del grande amore, malattia destabilizzante, disperazione disillusa, grande rentrèe scenica, giovane morte – altro?) non era affatto facile, e il regista, a conti fatti, può ritenere di aver realizzato un’opera abbastanza rischiosa (non c’è una linearità temporale, ma un intrigante viaggio spazio-temporale in cui si passa dagli anni trenta ai sessanta con classe ed eleganza) con esiti interessanti (qualche scena da ricordare: l’incontro con Marlene Dietrich, la comunicazione della morte di Machan, l’intervista in riva al mare, il Padam detto all’orchestra, il primo ascolto di Non, Je Ne Regrette Rien). Certo, con un budget del genere (grande produzione europea) e con un cast così composito (da Depardieu a Segneir passando per Coreau) si poteva fare di più. In questo patinato e viscerale romanzo d’appendice, Cottilard fa la parte della straripante leonessa in un’interpretazione estremamente mimetica e di inappuntabile fedeltà, premiata con l’Oscar per la miglior attrice (nell’anno che avrebbe dovuto vedere trionfare l’immensa Julie Christie di Lontano da lei), per la seconda volta nella storia assegnato ad un’attrice non anglosassone (la prima volta fu Sophia Loren in versione Ciociara).
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