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Mio fratello è figlio unico

Regia di Daniele Luchetti vedi scheda film

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La recensione su Mio fratello è figlio unico

di (spopola) 1726792
8 stelle

Il risultato, conseguito dal regista con la mano leggera del divertimento intelligente e accattivante, è ironico e pungente e l’’ispirazione (che trova la radice in un provocatorio racconto di Pennacchi) genuina.

Devo dire che “Mio fratello è figlio unico” è stata per me una graditissima e inaspettata sorpresa (confesso infatti in tutta onestà, che nonostante gli apprezzamenti e le critiche complessivamente positive, coltivavo molte idee preconcette intorno a quest’opera). Nutrivo prima di tutto la radicata e non peregrina sensazione che avrei avuto pochissime possibilità di trovare un feeling personale immediato e diretto – o sufficientemente coinvolgente – con questa “rivisitazione” in salsa agrodolce considerata aprioristicamente un po’ sommaria – e per questo “immaginata” inadeguata e di comodo - di un periodo vissuto così intensamente e in prima persona, da rimanerne segnato nel bene e nel male, a causa delle lacerazioni e dei conflitti che ne sono scaturiti, da conservare ancora oggi le cicatrici per le profonde “ferite”che il tempo è riuscito solo a rendere meno evidenti. Oltre all’idea di considerare necessaria una analisi più “seriosa” e documentale di quanto mi veniva prospettato da ciò che avevo letto al riguardo, giocavano a favore dei legittimi dubbi (relativi all’indice di gradimento) anche gli esiti delle più recenti prove di Luchetti (quelle immediatamente precedenti a “Mio fratello è figlio unico” per intenderci) scialbe e inconsistenti (persino “inutili” potrei dire) e il titolo invitante ma – ammettiamolo – un pò “ruffiano”, tutti elementi che mi portavano a considerare inopinatamente, l’ipotesi di un bilancio assolutamente in perdita anche per questa nuova e ambiziosa “partita”. Ma ero io evidentemente che pretendevo di “guardare” le cose da una visuale differente rispetto a quella scelta dagli autori, non avendo messo minimamente in conto che questo in effetti non è - né vuole esserlo - un film politico inteso come tale. Pertanto riducendolo a una visione così parziale e unilaterale anche se probabilmente a me più congeniale, rischiavo di vanificarne annullandoli, quelli che invece sono gli indubbi meriti (e il significato) del film. Premessa un po’ lunga ma necessaria la mia, per evidenziare che cosa può accadere quando si arriva in sala fortemente prevenuti, sorretti da un’ idea pretestuosa costruita solo su semplici “ipotesi percettive” e su errate fondamenta “ideologiche”. Fortunatamente ho avuto l’accortezza di lasciar vincere le resistenze dal fluire delle immagini e di consentirmi di allentare la tensione quel tanto che basta per godere davvero e fino in fondo il racconto e la rappresentazione. Ho potuto così constatare con piacere che con “Mio fratello è figlio unico” il regista è finalmente risorto a nuova vita, ritrovando intatta (e con maggiore acutezza stilistica) la freschezza e l’ispirazione degli esordi da tempo smarrite. Merito anche di una sceneggiatura ben organizzata che dà il giusto spessore (e adeguato respiro) a tutti i personaggi che rappresenta in un contesto che sicuramente privilegia i “toni amari della commedia”, magari a volte con una troppo frettolosa semplificazione delle evoluzioni (e non del tutto preoccupata di rispettare l’assoluta “veridicità storicizzata” degli avvenimenti) ma non per questo meno pungente. Una sceneggiatura in ogni caso disegnata con estrema acutezza e per questo capace di ben sintetizzare i “ribollimenti interiori”, le contraddizioni e le incertezze di un periodo “epocale” che – comunque la si pensi o si giudichino quegli anni e soprattutto le derive che ne seguirono - rimane una delle esperienze “collettive” più stimolanti e dolorose (discutibili ma esaltanti, estremizzate e furenti ma piene di cuore e di speranze purtroppo precocemente e malamente “tradite”) che hanno attraversato, lasciando tracce profonde e tante nostalgiche illusioni perdute, la seconda metà del secolo scorso. L’approccio - checché ne dica Tarantino, visto che anche qui si parla di figli e di famiglia - è abbastanza intrigante, (anche se non del tutto inedito perché richiama alla memoria l’eco lontana della magnifica epopea di un modo di fare cinema, popolare ma non banale che ci auguriamo possa davvero ritrovare il vigore necessario per rianimarsi nonostante tutto). Il risultato, conseguito con la mano leggera del divertimento intelligente e accattivante, è ironico e pungente (anche un po’ “furbetto” direi, ma non tanto da guastarne l’equilibrio). L’entroterra è fortemente “propositivo” (e questo credo che abbia davvero una importanza fondamentale). L’ispirazione trova infatti la radice in un singolare, provocatorio racconto di Pennacchi (del quale però mantiene solo gli stimoli per la definizione delle evoluzioni della storia, ma non la profondità dell’analisi), ma anche (o almeno io credo di avvertire questa sotterranea parentela e magari è una idiozia assoluta) in certi concetti espressi (ovviamente in contesti e situazioni molto diverse e ben più tragiche e definitive) dal Calvino de “Il sentiero dei nidi di ragno”. Posso precisare meglio il mio personale riferimento a quest’opera, citando un momento del colloquio fra Kim e Ferriera che evidenzia come meglio non sarebbe possibile questa (per me, ripeto) interessante analogia di fondo. Indica infatti il labile confine che può portare con un semplice, leggerissimo, impercettibile scarto di prospettiva, ad acquisire posizioni e certezze diametralmente opposte e inconciliabili di totale e incontrovertibile contrapposizione ideologica: “E’ L’OFFESA DELLA LORO VITA, IL BUIO DELLA LORO STRADA, IL SUDICIO DELLA LORO CASA, LE PAROLE OSCENE IMPARATE FIN DA BANBINI, LA FATICA DI ESSERE CATTIVI. E BASTA UN NULLA, UN PASSO FALSO, UN IMPENNAMENTO DELL’ANIMA E CI SI TROVA DALL’ALTRA PARTE, COME PELLE, DELLA BRIGATANERA, A SPARARE CON LO STESSO FURORE, CON LO STESSO ODIO, CONTRO GLI UNI O CONTRO GLI ALTRI, FA LO STESSO”. Tornando al film in questione, si può dunque ben dire che quando c’è una solida base di partenza (non solo l’idea e il riferimento, ma anche una sceneggiatura adeguata) il risultato è già mezzo garantito, basta affidare la confezione all’amorevole sguardo di un regista sensibile e accorto che magari non disdegna nemmeno l’attenzione alla commerciabilità del risultato, facendo affidamento sul suo buon lavoro di artigiano e sulla sua conoscenza del mezzo. Non ci saranno probabilmente eccezionali voli pindarici, coinvolgenti dimostrazioni di tecnicismo esasperato, ma l’esito raggiungerà comunque un accettabile equilibrio fra impegno e spettacolo, il conduttore dimostrerà di “sapere il fatto suo” e di conoscere alla perfezione il mestiere come accade appunto in questa circostanza. Ribadisco che adesso ho ben chiaro che questa volta non è l’analitica ricostruzione critica su un periodo con il quale almeno qui in Italia ancora non si riesce bene a fare i conti l’obiettivo primario, ma bensì l’utilizzo di quegli anni e di quel clima per rappresentare un originale “percorso di formazione” in una determinata e specifica condizione non solo socioeconomica, ma anche di rapporti interpersonali, e in questa direzione il film prende corpo e consistenza , ha il respiro giusto, riesce persino (anche nelle ingenue frettolosità di certi passaggi) a risultare “criticamente graffiante”. Anche se Pennacchi ha ritenuto giustamente di prendere le distanze dal film per certe oggettive “accelerazioni”, si avverte infatti benissimo la pregnanza delle sue posizioni (direi che la sua “visione” non risulta tradita) anche dietro la più facile e semplificata impalcatura del film, grazie anche al contributo di un cast veramente esemplare (davvero una eccezionale squadra di attori ben affiatata e omogenea) che vede in primo piano la prova maiuscola di Elio Germano, un interprete fortemente dotato e mai scontato o banale, che già più volte ci aveva “avvertito” del suo talento, ma che qui credo abbia fornito la prova migliore e più matura di una già intensa e positiva carriera che gli consente di passare definitivamente nell’olimpo dei grandi. Una interpretazione la sua, che ha trovato il giusto riconoscimento con l’assegnazione del David di Donatello (non gli è comunque da meno Vittorio Emanuele Propizio che lo rappresenta negli anni più infantili) che è stato assegnato con analoga felice intuizione (ex-aequo con l’Ambra Angiolini di “Saturno contro”) anche alla appassionata caratterizzazione della madre di una sempre più sorprendente Angela Finocchiaro che si conferma una delle nostre più dotate e versatili attrici, così fortemente intuitiva e multiforme, da meritare (qualcuno raccoglierà l’invito?) qualcosa di più di semplici “comprimariati” di lusso come in questo caso. Esemplare anche la resa di tutto l’altro folto stuolo di personaggi che animano il contesto, dal convincente Zingaretti a Massimo Popolizio, da Anna Bonaiuto alle altre due incisive presenze femminili (fra le quali svetta la intensa bellezza di Diane Fleri), da Ascanio Celestini a Ninni Bruschetta. Ho volutamente lasciato per ultimo Riccardo Scamarcio, da più parti additato (non per questo film ovviamente, ma in generale) come il responsabile (o meglio colui sul quale era più facile infierire per farlo diventare l’indifendibile “capro espiatorio”) della evidente crisi “epocale” del cinema italiano ormai prioritariamente orientato verso il “ripagante” (in termini di ritorni economici) nulla della inconsistente vacuità di certi prodotti di (basso)consumo. Francamente io non condivo tanta “acredine” (mi sembra in effetti un tantino esagerata). Magari non potremo considerarlo un Laurence Olivier, ma credo che ci sia ben di peggio e di più “vacuo” in giro, anzi mi sembra che, se utilizzato in maniera intelligente, sia comunque un interprete duttile e capace di risultare più che decente (e di non sfigurare anche quando come in questo caso si trova a competere con un “mostro di bravura” del calibro di Germano). Qui risulta vanesio e inconsistente al punto giusto, bugiardo e distratto, ha l’impertinenza e i tempi necessari per acquisire il ruolo del necessario contraltare del “bello e impossibile” che è poi l’altra (indispensabile) faccia della medaglia di questo rapporto familiare contrapposto, un pugno di “personaggi” che soffrono, amano, competono fra loro e - guarda caso (ma non poteva essere altrimenti data l’epoca) - fanno anche politica, ciascuno a su modo. Direi che se la cava discretamente (ben oltre la sufficienza della “decorativa presenza”, come per altro a mio avviso era già accaduto altre volte, in “Texas” o “Romanzo Criminale”, per citare altri due titoli in cui proprio la “tipologia scamarciana” era stata utilizzata ad hoc ricevendo una risposta positivamente adeguata dalla resa del suo interprete). C’è davvero da mettergli la croce addosso per questa “eccessiva” attenzione mediatica che lo sta travolgendo? Per altro mi sembra che nonostante tutto abbia ancora la capacità di mantenere un “certo distacco critico” che me lo rende persino un poco simpatico: certamente sfrutta il “momento di gloria” e le occasioni a lui favorevoli come farebbe qualunque altra persona al posto suo, c’è da scommettere!!!!. E’ semmai (ancora una volta) l’inconsistenza del cinema italiano che cerca rianimazioni impossibili ed effimere (e andrà sempre peggio se non si risolverà il duopolio di fatto, si modificheranno le leggi, si terrà meno conto delle appetibilità televisive, si risolverà il sistema perverso delle attribuzioni degli interventi statali) e del giornalismo “pubblicitario” capace solo di arrampicarsi sugli specchi. Tornando a bomba a “Mio fratello è figlio unico”, è lampante la statura (epica?) del protagonista di questa commedia acre e garbata che mette alla gogna, prendendo a pretesto l’Italia del ’68 e seguenti, quello che potremmo definire l’atavico e incontrovertibile vizio del nostro popolo, quello del trasformismo (l’evidenza della quotidianità è qui a confermarcelo immutabile e in crescita). Accio è un complicato e affascinante esemplare con il quale – nonostante tutto – riusciamo a simpatizzare subito pur considerando le sue contraddizioni e il suoi voltafaccia, per la sua non comune umanità e “disponibilità” (in virtù delle quali gli si può anche perdonare di avere una volta “aderito” per “inclinazione o ripicca, alla parte sbagliata dei “gesti perduti”. Un personaggio bellissimo dunque, fortemente volitivo e determinato, ma attraversato da debolezze e frustrazioni di chi si sente sempre il brutto anatroccolo, colui che nel confronto non può che risultare il perdente – nella famiglia, nell’amore – e per questo deve in qualche modo “inventarsi” diversamente o nuotando controcorrente, la maniera del riscatto, che rimarrà davvero a lungo impresso nella memoria!!! E per valutare il valore della regia, basta considerare il momento magistralmente risolto del passaggio del testimone “a scena aperta” fra i due Accio, che si ritroveranno poi nella poetica sequenza conclusiva che va ben oltre le immagini nella “traccia” che lascia nel cuore, sulle note avvolgenti di “Amore disperato” cantato da Nada che amplifica e integra il senso dell’ottima colonna sonora di Piersanti.

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