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Mio fratello è figlio unico

Regia di Daniele Luchetti vedi scheda film

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La recensione su Mio fratello è figlio unico

di LorCio
8 stelle

Primi anni sessanta: Antonio, detto Accio (in questa prima fase interpretato dal vitale e promettente Vittorio Emanuele Propizio), bellicoso ex seminarista, ha un padre che lavora in fabbrica e una madre che stravede solo per il fratello maggiore, l’affascinante Manrico (Riccardo Scamarcio che cresce). È iniziato al fascismo dal veemente venditore ambulante Mario Nastri (maestoso Luca Zingaretti; sua moglie è una benritrovata Anna Bonaiuto), che ne fa il figlioccio: a nulla valgono i tentativi dei familiari per dissuaderlo (la madre è una dolente Angela Finocchiaro, il padre un verace Massimo Popolizio). Anni dopo, mentre Manrico scopa a destra e a manca, è diventato operaio e si batte per i diritti dei lavoratori, Accio studia latino, continua a frequentare le sedi del MSI e conosce una delle amanti del fratello, della quale s’innamora senza darlo inizialmente a vedere. Tra azioni violente, comizi marxisti, cazzotti e mazzate, Accio si converte al comunismo…

 

Ispirandosi liberamente al romanzo di Antonio Pennacchi Il Fasciocomunista, dopo anni di latitanza Daniele Luchetti torna al cinema con un film nostalgico ed appassionato che ha come tema quello della difesa, fino all’estremo, della propria morale, della propria etica, dei propri valori. Mio fratello è figlio unico, dalla canzone di Rino Gaetano, che in realtà non c’entra nulla col film, s’avvale della sceneggiatura degli iperattivi Rulli e Petraglia che restituisce l’atmosfera del periodo storico raccontato senza ridondare ed eccedere in didattiche e calligrafiche rappresentazioni storiche, regalando un taglio molto umano alla storia. Per tre quinti, scorre via tra sorrisi e lacrime, nell’abituale stile agrodolce di Luchetti, illustrando con sincera ed accorata partecipazione la vicenda. Negli ultimi due quinti, invece, il film s’ingolfa su se stesso quando Accio “si converte” al comunismo, prima imboccando la strada degli anni di piombo, culminati con la morte di Manrico, poi, nel commovente ritorno a casa con una riscossa da quarto stato. Qui il film appare indeciso sulla via da percorrere tra l’impegno civile e la commedia drammatica proletaria.

 

Malgrado ciò quest’ultima è la parte fondamentale che il film offre per capire a fondo il personaggio di Accio, sempre e comunque dalla parte degli “ultimi”. E nel finale, così liberatorio e speranzoso, che il cerchio si chiude, con il nostro che ormai si sente un “giusto”, ormai un “po’ meno ultimo”. Resta un’opera di grande respiro, un buon esempio di cinema medio privo di pretese sociologiche, che guarda anche al mercato senza dimenticare le ambizioni intellettuali. Mi inchino al cospetto della bravura del grandissimo Elio Germano: mosse e movenze da fascista convinto per metà film, una grande faccia da schiaffi che ispira al contempo tenerezza, dolcezza e solidale partecipazione. Due scene da ricordare: quando balla di fronte a Diane Fleri e il finale. Un applauso lungo tanto quanto il film.

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