Regia di Florian Henckel von Donnersmarck vedi scheda film
Come il Gene Hackman di La conversazione, l’agente della Stasi HGW XX/7 è un omino solitario e meticoloso: non ha una vita sua, si limita a osservare quelle degli altri. A differenza del diretto superiore, un opportunista che cerca solo di far carriera compiacendo i potenti, lui crede davvero nel paradiso socialista e nel proprio lavoro: si mantiene fedele al giuramento che ha fatto, nemmeno ride delle barzellette su Honecker. Svolge con spietata naturalezza il suo compito all’interno di un clima di paranoia e di sospetto generalizzati, dove chiunque può essere un traditore (anche la donna con cui si divide la casa, ci si accorgerà). Le cose cambiano quando deve spiare un drammaturgo sospettato di eterodossia, ma che in realtà va silurato per consentire a un ministro di godersi la sua compagna. HGW XX/7 si rende conto di essere uno strumento del sottobosco mafioso che prolifera a tutti i piani del potere, nelle dittature come nelle democrazie. In lui si risveglia un barlume di vita: in mancanza dell’amore si prende l’unico surrogato che ha a disposizione (una squallida serata di sesso con una prostituta), legge le poesie di Brecht. Comincia a provare un sentimento ambivalente, fatto di invidia per chi ha una libertà spirituale superiore alla sua e di desiderio di aiutarlo, per giocare un ruolo anche minuscolo nella vita altrui: ruolo che trova un riconoscimento, anni dopo, nella sibillina dedica di un libro che lui solo è in grado di capire. Il finale è un po’ tirato per le lunghe e sembra voler cercare a tutti i costi una consolazione postuma, ma dal punto di vista narrativo un chiarimento dei ruoli era necessario. Bellissimo film.
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