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Le vite degli altri

Regia di Florian Henckel von Donnersmarck vedi scheda film

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La recensione su Le vite degli altri

di ROTOTOM
8 stelle

DDR, 1984. Essere un intellettuale non è facile in un paese che seziona ogni singola parola in cerca di possibili conflittualità con il partito. Partito che è al contempo madre protettiva e padre padrone del popolo, del cui popolo è sublimazione fisica e astrazione intellettuale nata per partenogenesi e dal suo stesso corpo distaccatosi in un’entità mostruosa e totalitaria. Mostro con milioni di orecchie e occhi frutto di tentacolari filiazioni radicate nel corpo-popolo stesso in cerca di cospiratori, di virus, di possibili cellule da ridurre all’impotenza prima che in loro anche solo l’idea di una vita diversa attecchisca. E’ difficile essere artisti senza la libertà del proprio di corpo. Corpo cellula di fatto agglomerata indistintamente al corpo partito che ne controlla l’espressione artistica dietro compenso di prestazione fisica. I privilegi di pochi acquistano un valore immenso e un potere inimmaginabile nello stato in cui tutti sono uguali. Orwell sapeva già tutto e nulla come questo film richiama alla mente il grande fratello che tutto ascolta, le vite schianta e stravolge a piacimento. Per capriccio o solo per noia. Ma in un contesto così disumanizzante è difficile essere anche dalla parte forte, dalla parte “giusta” dell’orecchio e dell’occhio gigantesco, poiché nessun regime totalitario può nulla contro la natura buona dell’uomo, alla sua coscienza più forte dell’ideale, all’amore più importante delle regole. E’ un bellissimo film Le vite degli altri, frutto della felice Nouvelle Vague tedesca che ha già prodotto ottimi lavori nel recente passato in cui viene evitata del tutto la teutonica atmosfera Horst-tappertiana alla Derrik, dai colori smunti e anemici, per mostrare in tutto il suo nulla una ricostruzione d’epoca asciutta e tagliente, dagli ambienti vuoti e metallici, dai colori freddi e inquisitori (quelli del palazzo del potere e delle sue stanze degli interrogatori) contrapposti alla luminosa e calda casa in legno dei protagonisti, lo scrittore Georg Dreyman (Sebastian Koch) e la sua compagna l’attrice Christa-Maria una bravissima Martina Gedeck controllati, spiati, valutati e distrutti dalla Stasi. La Stasi l’efficientissima polizia segreta per la sicurezza dello stato controllava all’epoca 200 000 cittadini con un rapporto di controllanti di 1 a 2 in un paranoico delirio cospiratorio ha gli occhi profondi e solo superficialmente glaciali di Gerd Wiesler ( un grande Ulrich Muhe), ufficiale che si incarica del loro controllo e si insedia come un germe nella vita dei controllati. La metafora corpo-virus non è a caso, la polizia segreta penetra come una malattia, sottopelle, silenziosa e mortale, sotto la carta da parati dell’appartamento scorrono come tenie i fili dei microfoni, nelle prese di corrente si insediano i ricevitori, nel giro di brevissimo tempo il “corpo” è preso, controllato e ammorbato da una presenza fisica i cui nervi risiedono in soffitta, cervello cuore orecchie e occhi pronti a determinare con inflessibile potere la vita o la morte di quella cellula della società che si ritiene protetta proprio da quell’emanazione dello stato che la sta infettando. Il pretesto, il corpo della donna, attrice simbolo di libertà d’espressione di cui un gerarca si innamora e cerca di annettere a sé, di fagocitarla e annichilirla. Il particolare per il generale. La Stasi annichiliva le cellule uomo una ad una, infettando le altre di paura. L’ufficiale scoprirà però a sue spese quanto sbagliato sia il sistema, quanto veleno stia instillando in menti illuminate, la sua vita solitaria e vuota si lega indissolubilmente alla vita degli altri, si nutre del loro amore, ne condivide il loro combattere, i due corpi –stato/popolo- si fondono attraverso i marchingegni filtrati nell’appartamento e a prevalere è la parte libera, intellettuale che cambia la fisica, i sentimenti, le azioni della cellula parassita. L’ufficiale crolla, come avverte che tutto il sistema è vecchio e sta crollando in ogni ideologia filtrata da interesse personale, ogni retorica avvolta di superbia, ogni azione delegata dalla malvagità. Crolla come crollerà il muro di Berlino da lì a poco. Il particolare per il generale. Intenso e ottimamente recitato, Le vite degli altri non ha l’urgenza e la frenesia delle opere prime, è un film pensato e ottimamente scritto che si prende le pause che servono a creare l’atmosfera del tempo, a instillare paura e sospetto. Il regista mette lo spettatore nei panni del pubblico e nel contempo del controllante, ovvero di “colui che sa”, che ascolta, vede e il cui sguardo verso una normale vita famigliare viene corrotto, infettato anch’esso dalla consapevolezza di spiare attraverso il mezzo-telecamera, come l’ufficiale della Stasi al piano di sopra decodifica rumori e parole per mezzo del mezzo-microfono. Il risultato è assolutamente emozionante e coinvolgente, senza alcuna furberia di scrittura, senza patetismi o inutile romanticume, tutta la storia nella sua spietata asciuttezza ha un punto di umanità profondo e sincero, il cui fuoco coincide con gli splendidi, disillusi e redenti occhi azzurri di un uomo che è riuscito a spezzare i legami con l’ideale generale, il corpo-stato-mostro, rimanendo sé stesso, particolare, singolo, un unico e integro uomo. Una persona buona.

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