Regia di Stefano Calvagna vedi scheda film
A Roma, nella zona del Circo Massimo, nel luglio del 2004 Luciano Liboni venne freddato dai Carabinieri durante un conflitto a fuoco. Le forze dell'ordine lo ricercavano da anni: furti di opere d'arte compiuti in Umbria, Lazio e Toscana, rapine negli uffici postali, un carabiniere ucciso durante una normale operazione di controllo e una donna presa in ostaggio: questa l'essenza del curriculum di un malvivente solitario, chiamato il lupo, molto legato alla famiglia e alla moglie, epilettico e con un padre pazzo che morirà suicida. Fin qui la cronaca. Rispetto ad essa, il film di Stefano Calvagna è quasi filologico, eccetto che per due, fondamentali particolari: quello di cambiare i nomi ai personaggi (Liboni diventa Scattoni, in una curiosa e non si sa quanto casuale assonanza con l'ideatore dell'assassinio di Marta Russo) e di trasformare la vicenda umana e gangsteristica di Liboni-Scattoni in un duello personale tra il lupo e il padre del carabiniere assassinato (un Montesano a cui non sono bastati Il tenente dei carabinieri e I due carabinieri per imparare decentemente la parte). Non a caso i famigliari della vittima hanno espresso le loro rimostranze con le dovute giaculatorie, dalle quali il regista si è difeso con il passe-partout della libera ispirazione a un fatto di cronaca. Non si sa come siano andate davvero le cose, né se la caccia all'uomo nei confronti di Liboni sia stata innescata dal puro desiderio di vendetta. Fatto sta che il film racconta la vicenda con i registri piatti dell'impostazione televisiva, con molta macchina a spalla, pellicola sgranata e il reclutamento di un manipolo di attori dei quali si erano da tempo perse le tracce, diretti - con l'eccezione di un volenteroso Bonetti e di una ritrovata Ponziani - con approssimazione dilettantistica.
Prodotto da quel nazista di Gennaro Mokbel.
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