Regia di Ethan Hawke vedi scheda film
Gente che parlano troppo. Direbbe mia nonna se fosse ancora viva. Ma poi si fermerebbe lì, nell’asciutto dono della sintesi che hanno i vecchi poiché non c’è tempo per le cazzate. Al contrario di William, un guanciuto cicciobello coi peletti che ancora non sono barba e che vuole fare l’attore e Sara, una dozzinale e qualunque ragazzetta isterica in soprappeso che vuole fare la cantante. A New York i due si innamorano, o meglio lui si innamora di lei senza un motivo apparente che non sia un’esigenza di sceneggiatura. Ethan Hawke talentuoso “ggiovane” autore che avrebbe fatto bella figura di sé in Ecce Bombo sfrutta la temporanea assenza dalla Grande Mela di Woody Allen, in missione all’estero per conto di Spielberg e sforna da un suo libro autobiografico un film molto autoriale. New York, New York….senza l’ironia di Allen è un posto come un altro dove parlare per giorni senza arrivare a nulla. Nei film autoriali diretti da attori che hanno scritto un libro da cui hanno tratto il film che dirigono e interpretano, il rischio è l’autocompiacimento. Per evitare questo il buon Ethan ha l’umiltà di interpretare suo padre che l’ha abbandonato e qui è materia per Freud che se fosse ancora vivo molto probabilmente la penserebbe come mia nonna. L’opera quindi risulta doppiamente autocompiaciuta in quanto l’autore si ritaglia un ruolo fondamentale ed intimo per poi guardare un altro sé stesso fare ciò che egli gli ha detto di fare. Parlare. Parlare. Nei film autoriali diretti da attori che hanno scritto un libro da cui hanno tratto il film che dirigono e interpretano, il rischio è che gli attori fagocitino il film. E così è, puntualmente. Un film parlato male, di quel linguaggio finto “ggiovane” che puzza di tavolino lontano un miglio. Posticcio, artefatto e inconcludente, il copione esce dalla bocca dei ragazzotti che ce la mettono veramente tutta per rendere credibile un mattone simile ma non ce la fanno e restano lì a galleggiare tra giochi di luce innaturali, location ad effetto, il tutto di rimando a cliche rivisti miliardi di volte, enfatici di estetismo popolar newyorkese. Vorrebbero amarsi ma non possono, non vogliono, non sanno e parlano di quanto non possono, non vogliono e non sanno di quello che parlano, mettendo in scena la trista commedia dell’isterismo intellettuale che considera la chiacchiera inconcludente parte fondamentale dell’essere comunicativi. Non esiste stile, la sceneggiatura gira su sé stessa come su un calcinculo senza arrivare a nulla insinuando la sgradevole sensazione in chi assiste che gli attori sappiano di essere ripresi nell’esercizio del ridondante essere sé stessi più di sé stessi, scivolando nel patetismo degli ultimi quaranta minuti di pesantezza insostenibile, alle immagini in movimento (prerogativa del cinema) si sostituisce la parola a vuoto, gli ambienti studiati, le luci ad effetto talmente fasulle da sembrare extra-diegetiche, il look finto trasand-etnico che fa tanto New York “ggiovane” (per essere giovane nei film su New York devi indossare una camicia rosa sotto una giaccona di due taglie più grandi a quadri, un cappello il più ridicolo possibile, pantaloni finto casual sdruciti e avere la faccia di quello che si guarda riflesso in una vetrina per strada mentre pensa “che cazzo mi sono messo stamattina?”). Ethan Hawke è talmente impegnato nel raccontarsi e raccontarsela che dimentica la verità, accantona l’umiltà di uno sguardo asciutto, sfondando nell’autocompiacimento onanistico con tutto il suo carico di greve presunzione autoriale. In una scena, i due presunti amanti “provano” per gioco il loro primo litigio, provano le parole con le quali si lasceranno, giocando sul labile confine tra realtà e finzione nella finzione stessa. Beh…si guardi In the mood for love un paio di volte almeno, il buon Ethan.
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