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Ironweed

Regia di Hector Babenco vedi scheda film

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La recensione su Ironweed

di Aquilant
8 stelle

Un infinito piano sequenza all’esordio in una Albany del 1938 stravolta dalla depressione, il lento risveglio di un reietto e la sua immersione in una nuova giornata di stenti e di bottiglia. E’ lento l’incedere del film, sonnecchiante, contagiato dalla stessa ignavia dei suoi personaggi. Immagini che procedono per sottrazione. Il regista si affaccia col suo sguardo cinico ed impassibile sulle miserie umane interiori ed esteriori, versando di tanto in tanto una lacrima furtiva di condiscendenza che va a mescolarsi all’amaro fiele del pentimento che trasuda dalla visione di una storia amara e disperata, percorsa da improvvisi e passeggeri fremiti vitali ed a reiterati sussulti di forzata rassegnazione. Con stile scarno ed asciutto, quasi impregnato della stessa sporcizia vitale che pervade uno sparuto manipolo di reietti, l’autore si sforza di giungere al cuore di tenebra della vicenda senza inutili forzature stilistiche, in virtù di un crepuscolarismo onirico frammisto ad un realismo tagliente e mortificantemente esplicito. Chiede allo spettatore tutta la pazienza possibile ed immaginabile, procedendo in un andamento narrativo imperniato essenzialmente sulla caratterizzazione di un ambiente dalla parvenza costantemente dimessa, apparentemente in sospensione indeterminata in una dimensione spazio-tempo a sé stante, irrigidita su sé stessa, rattrappita nelle forme contorte di una costernazione che si fa carne e sangue riempiendo della sua sostanza agonizzante le carcasse inerti di esseri vaganti in una parvenza di Ade ricostruita ad arte, il cui relativo buio fitto è rischiarato con sprazzi di vivida luce da una trilogia di interpreti d’eccezione. Jack Nicholson offre agli spettatori una delle sue più misurate interpretazioni della sua carriera. Lo sguardo sempre fisso in direzione di un orizzonte lontano nel tempo, a tu per tu con i candidi fantasmi del passato. Ricordi che rodono l’anima e trascinano l’individuo nell’abisso più profondo dell'umana abiezione. Il tarlo del rimorso sempre a portata di mano, pronto a modulare i suoi sguaiati motivetti di sulfurea dannazione. Meryl Streep è un’impagabile stracciona pronta ad offrire il meglio di sé stessa in un’estemporanea interpretazione canora da pelle d’oca, condotta sul filo della disperazione, traboccante di un sentimento di sguaiata trasandatezza interiore, memore dei morsi d’una perenne fame di vita. Il Rain Dog Tom Waits, privato delle sue Waltzingmatilde e dei “downtown trains full with all those Brooklyn girls”, pur ritagliandosi una parte secondaria non fa che giganteggiare in un ruolo che rispecchia comunque nel profondo la sua reale personalità. Ciondolante nel vuoto di strade notturne, aperto alla freddezza imperturbabile dei sensi, con la morte sua immancabile compagna di sbronze. Sempre straight to the top con un’interpretazione che boppeggia un muto riff reiterato nel nero candore della sua anima chiusa al potere della tenebra. Ed alla fine schiacciato dal sogno americano che mostra il suo vero volto in scoppi di fuochi distruttrici tesi a spazzare via le baracche di miseria ed in mazze padronali da baseball che colpiscono duro il cuore del sottoproletariato.
Hector Babenko è sempre pronto a creare netti contrasti tra le figure notturne dei suoi personaggi, spesso illuminati caldamente da luci morbide e soffuse, e la cupezza degli sfondi rabbuiati, di un nero invasivo che inghiotte i dettagli delle cose nei fitti meandri della sua non esistenza. E ad accentuare il sentore d’una immanente condizione esistenziale contribuiscono le riprese in luce diurna, dalle ricercate volute di piatta ed impersonale consistenza, che completano un quadro a suo modo intimista pur nelle sempre più fioche grida d’aiuto che squassano di tanto in tanto la passiva acquiescenza di un andamento narrativo tutto sommato misurato che procede di pari passo con un ritmo blando e sommesso dalle sporadiche ed anomale impennate. E non è esagerato definire IRONWEED come un distillato di pura malinconia riflessa da consumare preferibilmente in pazienti serate solitarie scevre da sensi di colpa. Toccante ma non sdolcinato. Intensamente vibrante di un sentimento interiore mutuato da profonda ed asciutta commozione. Realisticamente concreto e mirante direttamente all'animo dello spettatore. Da versare freddo con una spruzzatina di ghiaccio senza agitare il bicchiere e mandare giù in piccoli sorsi centellinati.

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