Regia di Gabriel Range vedi scheda film
L’intento provocatorio del regista è evidente, la costruzione fantapolitica della storia attendibile assolutamente realistica ma purtroppo latita del tutto la alla forza emozionale dell’impatto sullo spettatore. Si avverte infatti una “manchevolezza” che spinge verso la noia e che non consente di andare oltre la sufficienza.
Ci troviamo indubitabilmente di fronte a una pellicola di alto impegno civile realizzata con mano salda e “idee” altrettanto chiare da Gabriel Range, una requisitoria antibushiana di forte impatto, “diretta” ed inequivocabile nelle sue finalità, che rappresenta al tempo stesso un pesantissimo “atto di accusa” al sistema, capace di mette in evidenza ancora una volta con l’efficacia e la virulenza necessaire, le pesanti deficienze di una democrazia in crisi come quella dell’America post 11 settembre. Le qualità del regista sono indiscutibili nel costruire questo falso documentario (o docu-fiction che dir si voglia) mischiando con indubbia abilità anche tecnica, “la ricostruzione fantasiosa dell’evento”, con l’altrettanto copioso materiale di repertorio, così da rendere “più credibile del vero” questo “futuribile attentato” collocato a Chicago davanti all’Hotel Sheraton, il giorno 19 ottobre 2007 al termine di un discorso tenuto agli amici del Club Economico (una data davvero “a un tiro di schioppo”!!!!) e prendendo a prestito per le modalità esecutive, persino i meccanismi attuativi di quello effettivamente consumato ai danni di Robert Kennedy nell’ormai lontano1968 (per altro oggetto di un’altra intensa, “imperdibile” pellicola quasi in contemporanea sui nostri schermi ad opera di Emilio Estevez). L’intento provocatorio del regista è evidente e condivisibile, anche perché Range non si limita a “documentare” l’avvenimento, ma lascia giustamente ampio spazio al “dopo” per sottolineare (e stigmatizzare) l’incredibile balletto della maniacale ricerca delle imputabilità più ovvie che portano, prima di ogni altra considerazione e in anticipo sulla effettiva scoperta della “vera” matrice responsabile del complotto, a sbattere in galera pur senza un briciolo di prove ma sulla base di una non peregrina “costruzione di indizi accusatori”, il solito islamico di turno (ennesima vittima sacrificale di quei rinnovati “pregiudizi razziali” che stanno avvelenando il nuovo continente). Il dito è quindi nuovamente infilato con convinzione e determinatezza, dentro la piaga pulsante della ferita putrescente che si esplicita nella perdita dell’innocenza di una Nazione che ha davvero smarrito la bussola, e con questa la spinta ideale che (forse) una volta l’ha fatta grande, ma della quale non ci rimane adesso che la possibilità di osservare con costernazione e rabbiosa impotenza, le rovinose macerie fumanti di una disastrosa resa della ragione all’intolleranza per la ossessiva difesa ad oltranza e ad ogni costo dei propri privilegi, dimenticando troppo spesso in nome di ciò i sacrosanti diritti degli altri. La ricostruzione è così attendibilmente “reale” da mettere i brividi e non può di per se non lasciare un senso di sgomento, eppure c’è qualcosa che “non torna” al di là della positività degli intenti. Si avverte infatti una “manchevolezza” che non consente di pareggiare del tutto il conto finale, un qualcosa di fondamentale che, al di là dell’ineccepibilità della forma, riguarda proprio la resa “cinematografica” dell’operazione e il suo conseguente impatto “emozionale”. E’ proprio su questo fronte infatti che a me sembra che la pellicola risulti in parte deficitaria per la mancanza di un effettivo e totale coinvolgimento emotivo dello spettatore, elemento essenziale in una operazione di questo tipo, quasi da “inchiesta televisiva”, qui davvero riprodotta con una “forma adeguata” ma spesso senza la necessaria “anima”. Tutto è irreprensibile e perfetto, non sono evidenziabili “pecche” o stonature di alcun genere, né falle nella documentazione, ma inesplicabilmente quello che difetta è il pathos, un “qualcosa” che riscaldi in qualche modo (e riscatti) la freddezza dell’insieme spesso fastidiosamente avvertita. E la carenza è davvero tutt’altro che secondaria (ovviamente secondo le mie personali valutazioni) perché determina una “distrazione” progressiva che nella parte conclusiva rischia di sfiorare i confini della noia, così da far immaginare il risultato complessivo quasi un’occasione perduta di un’ottima idea di partenza non completamente onorata come sarebbe stano opportuno, un “colpo allo stomaco” insomma ben preparato e assestato, ma che arriva a destinazione senza la necessaria violenza. Resta in ogni caso una importante (e ulteriore) occasione per indurre ugualmente alla riflessione che sollecita una indignazione così viscerale che potrebbe (dovrebbe) sfociare in una più ampia azione di “protesta” di massa e di rivendicazione (purtroppo però - anche nella migliore delle ipotesi - probabilmente solo di chi è “già cosciente” di come stanno le cose perché una pellicola così dichiaratamente orientata, sicuramente sarà snobbata da chi abita l’altro fronte e avrebbe invece più di altri la necessità di confrontarsi con l’effettivo stato delle cose per prendere coscienza della effettiva disastrosa realtà di cui si sta rendendo giornalmente complice).
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