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Saw III. L'enigma senza fine

Regia di Darren Lynn Bousman vedi scheda film

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La recensione su Saw III. L'enigma senza fine

di scapigliato
8 stelle

Non sono mai stato troppo gentile con il franchising “Saw”. Non sono un vero appassionato e fans della nuova serie thriller-horror, per motivi di resa finale, come invece lo sono di Jigsaw e quindi di Tobin Bell. Ma va detto che l’intera serie è ciò che di più interessante sia passato sui nostri schermi. Il primo capitolo era una novità, e piaceva più per quello che “poteva dire” che per quello che poi “ha detto” davvero. Il secondo capitolo ha entusiasmato per la presenza di Tobin Bell, che da perfetto demiurgo gestisce la sua “tempesta” come un Dio umile, contraddittorio, ma che nasconde tra le righe un raggio di purezza che illumina tutto il pattume iconografico delle ambientazioni. Il terzo capitolo rispetta la progressione algebrica ed eleva al cubo ogni idea, ogni pretesto ed ogni motivazione del film. Tutto si esagera e aumenta: dai giochi che tesse Jigsaw (a me Enigmista proprio fa cacare), alle sue vittime; dai rapporti tra i personaggi, che mutano e si sovrappongono, fino alle elaborazioni delle torture. Il tutto però cozza con la presenza immobile di Tobin Bell. É questo l’aspetto più interessante, credo, dell’intera seria e del terzo capitolo soprattutto: l’evidente contrasto tra la frenesia, anche ahinoi videoclippara, del mondo sotterraneo delle vittime, e l’immobilità quasi divina, spirituale, di Jigsaw. Ipotizzare che a questo giro lui sia il “buono” e gli altri i “cattivi” non è poi così audace. Le iterazioni tra i personaggi li portano a livelli multipli. Escono dalla bidimensione del film canonico, e instaurano un rapporto tridimensionale con lo spettatore. Non solo vediamo una trama articolata e dipinta da truce thriller orrorifico, ma vediamo anche attraverso e oltre la linearità della trama svelata, e avvertiamo così le geometrie di un discorso metatestuale che sta all’horror moderno come “Saw III” sta a tutta la trilogia. Passare da una riflessione micro ad una macro ci permette di concepire il franchising di “Saw” come la religiosità della desolazione. Dove non c’è né fede né speranza, non c’è né religione né spiritualità. Invece “Saw” ci insegna proprio il contrario: là dove non c’è fede, né riscatto, né speranza, né perdono, là c’è Dio. E Dio qui assume provocatoriamente il volto di Tobin Bell. Il volto di Jigsaw. Da cui poi la sua lezione, il suo Vangelo.
Marco Lazzarotto Muratori, su “Nocturno”, parla di Jigsaw non come un assassino, ma come la prosopopea del concetto di demiurgo. Analizzando la sua frase non possiamo che essere d’accordo. Tobin Bell incarna un concetto. Sia un concetto di entità astratta, impalpabile, come del resto il grande attore ha saputo rendere il suo personaggio, che crea e distrugge a piacere, quasi fosse un Dio da vecchio testamento, le vite e il tessuto umano che incontra. Sia un concetto metacinematografico, che attraverso il “gioco” sawiano punta il dito sul cinema horror moderno, casto, castrato, mediocre, mainstream, ma di quest’ultimo potenzia l’elemento positivo del concetto di serialità post-moderna. Triturate le lezioni precedenti di Dario Argento (da cui il pupazzo sul triciclo e la maschera da maiale) e di Wes Craven (da cui la riflessione metatestuale alla “Scream” e alla “Nightmare – Nuovo Incubo”), che sono i due referenti più evidenti del cinema del trio Wan-Bousman-Wannell, i registi e lo sceneggiatore-attore impastano l’ammasso triturato per creare una massa informe che messa nelle mani del grande e intoccabile Demiurgo Jigsaw diventa una riflessione post-moderna sull’identificazione massmediatica. In parole più semplici, la serialità di “Saw” non è la serialità delle notizie al telegiornale, che si ripetono nella loro continua ricerca di sensazionalismo, pietismo coercitivo, consenso popolare sugli ingranaggi conservatori; non è la serialità dei programmi beceri della tv del nuovo millennio che guarda a sé stessa e affonda il dito nella piaga dell’uomo moderno creando e reinventando veri mostri inquietanti che in faccia non hanno nulla di mostruoso, ma lo sono deontologicamente; non è la serialità dell’horror mediocre e mainstream che vediamo al cinema, nei circuiti ufficiali, quello che non ha divieti, che definisce la minaccia mostruosa come un monolite nero da cui guardarsi bene, né turba, né inquieta, né ci fa sentire sporchi e maleodoranti, in nome di un politicamente corretto che sta portando l’uomo al baratro della sua forza intellettuale. La serialità di Jigsaw è sì un processo di indentificazione con il potere massmediatico, ma fatto al contrario. Un processo che parte dal “cattivo” per specchiarci nel terrificante, ed uscirne poi “buono”. E qui la lezione propria dell’Horror insiste di nuovo sulla sua identità rivoluzionaria e sovversiva.
Il Vangelo di Jigsaw è chiaro: non c’è più perdono. Non c’è più l’uomo. Non c’è più l’idea umanista dell’uomo e della società. Tutti siamo incapaci di concepire il dolore, quello vero, perché il carnaio audiovisivo ci ha abituato a riconoscerlo. Un po’ come il cane con il padrone: una volta che la bestiola lo riconosce lo accetta, e accetta le carezze come le bastonate. Siamo servi di un anticristo che ha nome Denaro, Consumo, Immagine, Potere, Arrivismo. Siamo i protagonisti stolti della “società dello spreco”. Come sprechiamo ogni prodotto, incapaci di accorgerci che stiamo andando a morire, sprechiamo anche la nostra forza umana che potrebbe redimerci e cambiare di colpo il mondo con una rivoluzione umanista e cristiana. Non c’è retorica nella missione di Jigsaw: chi sbaglia muore, chi non perdona non sarà perdonato. Un concetto da Vecchio Testamento che però assume i caratteri dell’antagonismo moderno elevando il personaggio di Tobin Bell a Salvatore. Non quindi una Nemesi di Dio, ma la sua immagine deformata, ammalata, morente e straziata, che cerca attraverso il dolore di farcelo capire, intendere e riconoscere. Sperando che un giorno, imbracciando un fucile, un soldato capisca di non essere davanti ad un videogioco, ma davanti ad un altro uomo che morendo soffrirebbe e farebbe soffrire altri uomini. Il concetto di dolore abbinato a quello di perdono rievoca davvero le fasi salienti della Passione di Nostro Signore. Dalle pagine del Vangelo ascoltiamo impietositi come soffra il Figlio dell’Uomo, ma come sia anche capace di perdonare. Dalle scene del Vangelo di Jigsaw vediamo altrettanto impietositi come soffra il demiurgo costretto a letto, in un sudario misero che fa quasi tenerezza, e con lui le sue vittime/carnefici che gli soffrono insieme. Ma vediamo anche come il perdono si perde nei rivoli di sangue, nei corpi deflagrati, nella corruzione delle membra come dello sguardo, che non ci permette di vedere il vero disegno di Jigsaw, ma solo quello che vogliono le sue pedine/vittime/carnefici. Il Vangelo di Jigsaw ci dice che nell’opposizione e nell’antagonismo, come nella sua figurazione deformata e provocatoria di Dio, ci sta dentro tutta la pietà per l’uomo: l’uomo ormai, ahinoi, post-moderno, traditore dell’umanesimo, e composizione sterile di arti e membra di cadaveri morti e defunti, il cui lezzo è il profumo delle toilette borghesi. Un Frankenstein inutile, lontano da quello romantico ed eversivo di Mary Shelley come di James Whale, ma soltato un insieme di pezzi morti, irrimediabilmente morti. Non c’è speranza. L’uomo è morto.

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