Regia di Dito Montiel vedi scheda film
Dito è riuscito a scappare dal malfamato quartiere newyorkese dove ha trascorso la sua adolescenza e si è trasferito in California, mentre gli amici di un tempo non si sono mossi da lì o hanno fatto una brutta fine: una telefonata di sua madre, che gli chiede di occuparsi del padre malato, lo riporta a casa e innesca il meccanismo proustiano della memoria. Sembra un C’era una volta in America in minore, nel quale agisce la consueta irrazionale nostalgia per il passato in quanto tale, anche se è un passato intriso di violenza. La narrazione procede in modo troppo sincopato per i miei gusti, e soprattutto nella prima parte c’è da perdere la pazienza a tentare di seguire discorsi e immagini che si accavallano. Inoltre, considerando che si tratta di una vicenda autobiografica, il rapporto dell’autore con le proprie radici non mi sembra ben risolto (non vedo affatto quel “sincero pudore” di cui parla la recensione di Federico Pedroni): probabilmente c’è qualcosa che ancora brucia, come lascia intuire quella dedica finale “per Antonio”, e in generale si pecca di indulgenza verso sé stessi e gli altri; insomma, direi che con un materiale simile si poteva fare di meglio. Ma è da incorniciare il trattenuto romanticismo delle due scene al balcone di Laurie (prima ragazza e poi adulta) in stile Romeo e Giulietta.
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