Regia di Ferzan Özpetek vedi scheda film
Dopo Le fate ignoranti ritornano le ricche ed invitanti tavolate attorno alle quali siede un folto gruppo di amici/fratelli/sorelle/amanti.
Ritorna l'urgenza fisiologica di aggrapparsi, in preda all'affanno dell’animo, delle sue sanguinanti ferite, al proprio microcosmo, porto sicuro nella tempesta della vita.
Ritorna il dolore causato dal distacco; tornano la tragicità della perdita, la lacerante elaborazione del lutto, il bisogno incontenibile di condivisione ed accettazione reciproca. L'istinto di protezione, la complessità e difficoltà delle relazioni, lo spettro dell’abbandono, quella paralizzante paura di essere soli nel varcare l'oscura porta chiamata futuro.
Personaggi umanissimi quelli del regista turco italianizzato Ferzan Özpetek.
Qui ancora più insicuri, fragili, allo sbando.
Anime malate erranti, caratteri diversi ma nel profondo così tanto simili quando dai singoli sguardi trapela, furtivo, il medesimo smarrimento.
La medesima malinconia. Tristezza ed insoddisfazione.
Saturno contro è la faccia buia de Le fate ignoranti: l'aura solare, quasi sognante ed irreale seppur dolente dell'opera precedente qui, per quanto luminosa, è fredda angusta e soffocante; il clima rassicurante, ovattato, che una volta filtrava la realtà esterna riuscendo a mitigarne quell’inconfondibile sapore acre, adesso viene a mancare: c’è una crepa nel gruppo/famiglia di questo Özpetek cresciuto, disincantato e amaro.
Non è più una voce sola, un'anima sola, un unico sentire. Non apre più la sua dimora agli ultimi, ai reietti, agli impauriti, ai ‘mutilati’.
Non aggiunge più un posto a tavola.
Questa famiglia ‘allargata’ è chiusa ermeticamente in se stessa, in balia delle aggressioni esterne; soffre di tensioni sotterranee, bugie non rivelate, si nutre di silenzi urlanti per il timore di perdersi, o perdersi ulteriormente, e disgregarsi definitivamente.
Sfoga il proprio dolore in intima solitudine e in luoghi solitari, anche se il radicato senso (salvifico) di appartenenza, responsabilità reciproca, di quasi patologico possesso spinge i suoi componenti a stringersi insieme, costi quel che costi, per ingannare l'impietosa, invadente, scomoda, inaccettabile, insostenibile verità che prima lambisce e poi invade il loro ‘intoccabile’ recinto.
Özpetek ci trascina nell'universo privato -infranto- dei suoi personaggi ma ci spiazza quando ci impedisce di farne parte completamente.
Erige un muro di vetro tra noi spettatori e le vite che scorrono sullo schermo.
Assistiamo alle loro sofferte vicissitudini in uno stato di accettazione passiva che non implica un profondo, autentico coinvolgimento emotivo.
E la commozione arriva là, dove è umano commuoversi, grazie anche ad una serie di memorabili piani-sequenza che fanno il film, e alle splendide musiche compresa la canzone di chiusura firmata da Neffa.
Restiamo degli estranei, come i genitori di colui che prematuramente ha lasciato la sua nuova (vera) famiglia o l’amante fioraia o l'infermiera che incrocia per un breve momento le loro esistenze sconvolte.
Noi siamo ciò che è altro, ciò che sta oltre, che è fuori da quel microcosmo di vite in bilico.
Siamo l'elemento destabilizzante, la disarmonia, l'abrasivo contatto con la realtà.
Il loro Saturno contro.
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