Regia di Renny Harlin vedi scheda film
Nell’accademia per rampolli di Spenser, in Massachussets, quattro studenti accomunati da strani poteri assistono ad eventi che non riescono a comprendere: incubi, apparizioni, strane tensioni improvvise e soprattutto il misterioso assassinio di un ragazzo inerme. Uno dei quattro, Caleb, si incarica di capire cosa stia accadendo: il tutto pare legato al “libro della dannazione” sulla caccia alle streghe, che proprio in Massaschussets ha storicamente un passato ingombrante.
L’universo dei teen-horror movie si arricchisce di un capitolo contraddistinto da un alto grado di esoterismo. “The covenant”, sceneggiatura originale di J. S. Cardone e regia del veterano Renny Harlin, attinge dall’affascinante mondo delle streghe e dei loro riti, cavalcandone relativamente la tradizione e concentrandosi maggiormente sul retaggio nei giorni nostri.
La scrittura di Cardone è interessante perché sciorina con costanza e lentezza gli elementi cardine della storia, rendendo molto intrigante la prima parte del film, in cui gli accadimenti sono misteriosi al punto da creare tensione pur non lasciando comprendere appieno quale sia il reale pericolo per la comunità dello Spenser. L’incipit, in cui si accenna all’emigrazione di molti cittadini che scapparono dalla caccia alle streghe attuata in Europa alla fine del ‘600, mano a mano acquista un senso. I dettagli che mancano, nonché i collegamenti tra le leggende riportate nei libri e la vita dei 4 protagonisti, ce li svela Caleb Danvers (Steven Strait) con l’aiuto della spasimante Sarah (personaggio ignaro di tutto, che rappresenta narrativamente lo spettatore senza cognizione di causa). In questa fase, lo straniamento per lo spettatore è un sentimento più che plausibile: i cattivi, o presunti tali, non sono ben concretizzati, ed il motivo del contendere non ancora chiaro (il villain, chiunque esso sia, appare sotto forma ora di incubo, ora di allucinazione che va letteralmente in fumo).
Harlin piazza la macchina da presa in maniera dignitosissima, inventandosi inquadrature che creano tensione, seppur non brillanti per originalità. La falsa soggettiva o gli eventi fuori campo sono espedienti che funzionano bene, seppur il regista non sia capacissimo nell’horror (molto più efficaci in carriera i thriller “58 minuti per morire” o gli action come “Spy”, rispetto al terzo sequel della serie “Nightmare” o al prequel de “L’esorcista“). La stessa efficacia nei meccanismi non può dirsi per altre situazioni. Nota dolente sono i cliché, che in un film horror che si rispetti vengono evitati (o addirittura sbugiardati attraverso, come nel caso di Wes Craven, l’ironia). Qui invece non si disdegnano, addirittura talvolta si cavalcano non solo li stereotipi dell’horror in generale (non mancano bellone che fanno la doccia nel maniero tenebroso, goliardiche scorrazzate in auto tra i boschi, ricerche in biblioteca su vecchi libri impolverati), ma più nella fattispecie addirittura cliché della sottocategoria “teen”. In particolare l’avvenenza dei suoi protagonisti Harlin la sottolinea con situazioni ritrite (fuori piove continuamente, addirittura c’è la nebbia, e le protagoniste, pur dormendo sotto un piumone da dicembre inoltrato giacciono semplicemente con canotta succinta e mutandine di “Victoria’s secrets”); per gli uomini l’escamotage delle docce e gli allenamenti in piscina sono sufficienti a mostrare pettorali scolpite e tartarughe in bell’evidenza.
Poco potenti invece altri elementi fondanti. In primis i duelli, aiutati da effetti speciali a profusione, ma che sono rarissimi e sempre troppo brevi (perfino quello conclusivo), condizionati fortemente dall’idea di fondo della sceneggiatura secondo cui vince chi assume più potere. Peccato che quest’altro si tramandi nella maniera più puerile possibile: esprimendo una frasetta breve breve, anche a distanza (meccanismo quest’ultimo talmente banale da inficiare la considerazione sul’intera sceneggiatura).
Si salva invece la messa in scena. Le abitazioni del campus, il famoso granaio, i numerosi interni, sono curatissimi. La cupezza delle ambientazioni è affidata, nelle scene all’aperto, ad una pioggia perenne accompagnata spesso dalla nebbia. A mia memoria tra l’altro non c’è una sola scena che si svolga con la luce del giorno. La fotografia, perennemente livida, vuol essere talmente pulita da risultare però farlocca. La confezione è molto sofisticata, forse troppo. Fin dagli atipici titoli di testa lo stile è quello tipico di una serie TV sul soprannaturale (The Secret Circle, Streghe, The Vampire Diaries, Salem). Ma il cinema è un’altra cosa. Harlin lo sa bene ed allora prova ad “omaggiarlo” qua e là, spesso velatamente (“The skulls”, “L’armata delle tenebre”), qualche altra volta in maniera più smaccata (si notino le assonanze con “The craft”, di Andrew Fleming, da cui gli autori mutuano non pochi elementi, a partire dalla locandina, praticamente identica).
Ad uno sguardo particolarmente superficiale, “The covenant” potrebbe considerarsi un teen-horror malriuscito come tanti, un prodotto bypassabile senza crucciarsi troppo. Tuttavia rimane la delusione per aver assistito ad un evidente passo falso di un autore mediamente affidabile come Renny Harlin. Il finlandese in definitiva produce un horror vacuo (mi si scusi il gioco di parole), con un bodycount bassissimo (un paio di morti in tutto) ed una quantità di sangue mostrato che meriterebbe il classico SOS “Attenzione! Serve urgentemente sangue del tipo ecc. ecc.”. Il film tuttavia è utile ai quattro bamboccioni Sebastian Stan, Taylor Kitsch, Chace Crawford e Toby Hemingway per lanciarsi sul grande schermo, dopo le alterne fortune su quello piccolo. A tal proposito, e considerate e doti recitative dei quattro, mi ronza in testa un dubbio, ossia che per decidere cosa fare da grande abbiano gettato la monetina: TESTA mettiamo su una boyband, CROCE facciamo gli attori. “The covenant” svela a tutti com’è andata a finire.
Carmine Cicinelli
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