Regia di Chan-wook Park vedi scheda film
La terza parte della trilogia della vendetta denota un cambio di registro che riesce a mettere insieme quelle componenti visive e di genere dei due lavori precedenti, e approfondisce decisamente l’introspezione psicologica. Lady vendetta è soprattutto la raffigurazione della redenzione della protagonista, che attraverso il compimento del suo disegno completerà un viaggio espiatorio che la trasformerà da entità santificata e pura (perché così appare agli occhi delle compagne di detenzione, allo sguardo torbido dei media e alla sua ingenua coscienza), ad essere umano, reale e vissuto. Il regista coreano Park Chan-wook lavora sulla formalizzazione dei linguaggi, mantiene vivi gli stereotipi noir, del melò, della tragedia e del pulp. Ne scaturisce una soluzione estetica fra le più interessanti degli ultimi anni, realizza una vicenda dai contenuti intensi e stilizzati con una solidità inscalfibile, e pur contenendo sfumature assai complesse possiede un ritmo serrato e intriso di un senso di sollievo e di umana leggerezza con cui determinate tematiche solitamente non sono compatibili. La giovane Geum-ja esce di galera dopo tredici anni, ingiustamente accusata di omicidio, il film si snoda attraverso flashback, visioni, e destrutturazioni visive lungo la strada che porterà la ragazza alla realizzazione della sua vendetta. Con mano raffinata e originale il regista costruirà un percorso di consapevolezza nella protagonista che pur decisa nella sua missione constaterà che la vendetta non cancella il dolore, può essere una ridistribuzione delle sofferenze, e nella seconda parte del film, quando la scena perde in luminosità, in artificiosità creativa della narrazione e diventa oscura e presagio rituale, si sviluppa l’impossibilità di una riconciliazione totale e di una purificazione attraverso un atto di giustizia, che in piena atmosfera simile alla tragedia greca coinvolgerà tutti i personaggi fino ad arrivare alla coscienza degli spettatori. Anche se ogni singola sequenza è un capolavoro di inventiva, scene quali quella che apre il film, i flashback con le storie delle compagne di prigione, e il messaggio d’amore di Geum-ja alla propria figlia tradotto dal vero assassino, sono destinate a rimanere indelebilmente impresse nello spettatore. Ritornando al prefinale, durissimo, oscuro e ripugnante: il regista nonostante la rappresentazione esplicita riesce a tenere fuori un completo coinvolgimento emotivo, fa compiere alla storia e a chi la guarda un balzo in avanti e anziché filmare insensatamente l’atrocità fino in fondo, la proietta già a svilupparne le conseguenze. Per una volta, il dolce amaro happy end è necessario, ci voleva proprio.
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