Regia di Chan-wook Park vedi scheda film
Una donna, Geum-ja, esce dal carcere dopo una detenzione di 13 anni, un coro di babbi natale, guidati da un insistente parroco dalla ridicola capigliatura, la aspetta al varco con in mano un piatto di tofu bianco, simbolo di purezza, da ingurgitare per rigettare il male ed abbracciare la vera fede. Lei li guarda àttonita e poi manda il prete a quel paese, dicendo di non farsi vedere mai più.
La maestria registica e sceneggiativa di Park Chan Wook lascia di stucco: una sicurezza ed una pienezza che annichilisce la maggior parte dei verbosi registi d’oltreoceano. Non una parola fuori luogo, un’immagine forzata o ripetuta nel suo cinema, nonostante una completezza scenica annichilente. Parlano gli sguardi o le immagini nel suo cinema, ove donne disperate come la protagonista tentano, in questo modo, di far capire agli altri il conflitto che le lacera internamente. Una perfezione che gli permette di girare una prima parte di film strepitosa: tutta la “presentazione” della protagonista e dei suoi metodi per incatenare a se, con legami moralmente indissolubili, varie anime perdute conosciute in carcere, contrappuntata da precisi “flashback” e siparietti grotteschi, è, a mio avviso, da antologia del cinema. Dal punto di vista tecnico il regista sfiora la quasi perfezione visual-emotiva: tutte le riprese sono arte figurativa allo stato puro. Impossibile da dimenticare, ad esempio, la carica grottesca di squallore che trasuda dalla lunga sequenza, prima fissa in campo medio e poi obliqua a tagliar via i volti e la dolcezza umana, della scena di sesso casalinga tra il sordido professor Baek (interpretato dall’inappuntabile Choi “Dae-su” Min sik) e sua moglie, veloce pratica forzosa da disbrigare mentre si parla del più e del meno, per poi tornare a mangiare come nulla fosse…La lunga parte finale, dopo lo sviluppo degli intrecci fra i protagonisti della parte centrale (leggermente più convenzionale, ma di un convenzionale “à la Park Chan Wook”), ci conduce ancor più giù nei meandri delle pulsioni emotive dell’apparentemente algida Geum-ja e ad una riflessione forte sugli abissi umani e sul significato di colpa e di vendetta (e della difficile redenzione), in maniera diretta e senza sconti. La baroccheggiante colonna sonora, infine, sempre puntuale nel contrappuntare le immagini, unitamente ai precisi inserti digitali, volti ad amplificare i cromatismi forti della stupenda fotografia, contribuiscono ulteriormente ad accrescere la godibilità di un grande film.
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