Regia di Nick Cassavetes vedi scheda film
“Hanno ucciso mio figlio per 1.200 $”
Tratto da un’incredibile storia vera, “Alpha dog” ha ambizioni alte ma risultati modesti. L’ennesimo ritratto di una gioventù agiata ma perduta tra alcol, sesso, droga, festini, piscine, playstation, tatuaggi, soldi e criminalità è infatti approssimativo, freddo e stantio (non manca, tanto per cambiare, il poster di “Scarface” di De Palma nella stanza dello spacciatore leader del gruppo – l’alpha dog del titolo). La vicenda di suo è sconvolgente nella sua folle assurdità ma la messa in scena di Nick Cassavetes, anche sceneggiatore, al di là dell’onestà degli intenti, di qualche felice annotazione (il sincero e fraterno rapporto di amicizia che si stabilisce tra sequestrato e sequestratore con tanto di iniziazione alla vita del primo), della consueta buona direzione degli attori, soprattutto per parte maschile, e dell’unica sequenza di innegabile, atroce e straziante tensione (tutta quella che porta all’omicidio di Zack con il ragazzino che progressivamente si rende conto del tragico destino che lo aspetta), è nel complesso accademica, incolore e telefonata, e si perde in stereotipi ormai troppo consunti e consueti. Non si può pensare che sia sufficiente abusare di turpiloquio, sesso e violenza per fornire un ritratto autentico ed inquietante di un mondo giovanile viziato ed arrogante, allo sbando e senza punti di riferimento (Larry Clark docet). “Alpha dog”, sospeso tra documentario e fiction, si vede con interesse e curiosità, nonostante diverse lungaggini, ripetizioni e cadute di gusto, più che altro per cercare, invano, di capire come sia possibile arrivare ad azioni così insensate ed incoscienti, ma alla fine non dice nulla che già non si sapesse sulla banalità del male, popolato come è da personaggi con lo spessore di figurine e raccontato come un interminabile e pedante videoclip. Non riesce così ad essere né un coraggioso film di denuncia né un dignitoso film di genere. Inoltre è penalizzato da almeno un paio di momenti davvero scult: l’intervista finale della Stone trasformata dal make up, la sequenza in cui una ragazza si presenta a casa dalla madre per chiederle consiglio, ma la donna, impegnata in acrobazie sessuali con il marito, le sbatte irritata la porta in faccia o ancora quella in cui il padre di Justin Timberlake cerca di coinvolgerlo nel suo menage a trois con due belle ragazze (a rappresentare in modo davvero pacchiano e grossolano la cronica assenza dei genitori, secondo una presa di posizione piuttosto semplicistica, sentenziosa e sommaria). Tra gli attori meglio Justin Timberlake e Anton Yelchin di Ben Foster (esagitato, il che gli capita spesso, per lo meno nei film in cui l’ho visto) ed Emile Hirsch (stranamente monocorde). Camei non proprio indispensabili di Bruce Willis e di Harry Dean Stanton, ma almeno loro, rispetto alla Stone … salvano la faccia. Da vedere assolutamente in lingua originale sottotitolata: la versione italiana è inguardabile nel suo doppiaggio sguaiato e rumoroso. Continuo a credere che se non si hanno la sensibilità e lo sguardo etico di un Gus Van Sant, su certi temi si rischia solo di arrivare ad un moralismo spicciolo fatto di conclusioni trite, fritte e pretenziose, come, purtroppo, avviene in questo caso.
Voto: 5
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta