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Spider-Man 3

Regia di Sam Raimi vedi scheda film

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La recensione su Spider-Man 3

di scapigliato
8 stelle

“Spider-Man 3” ovvero il super-antieroe espressionista. In sintesi il film è visivamente spettacolare, purtroppo telefonato negli snodi narrativi, pregevole nel gioco delle parti, con attori divertiti e divertenti, forse un po’ troppo invasive le scene “aeree”, ma nel complesso giocato con il gusto dei vari “registri” con cui Sam Raimi commenta le varie scene, da quelle più brillanti a quelle di eredità horror, da quelle più marcatamente mélo a quelle classicheggianti (la discesa iniziale di Mary Jane dalle scale che fa molto Hollywood sul “viale del tramonto” e la fuga notturna di Flint Marko ispirata agli out-of-prison-movie dei tempi andati). Ciò però che colpisce di più nel film, e ne è l’aspetto più bello e riuscito, è l’impianto dei personaggi, sostenuto da un parco attori azzeccato. Non sono infatti le scene spettacolari, i virtuosismi da videogame, le scorrazzate via ragnatela, che fanno grande il film, bensì tutto il resto. Il conflitto sentimentale tra Peter Parker e Mary Jane, lo scontro affettivo tra i due amici-nemici, le nuove pulsioni antagoniste che pervadono il povero protagonista: vendetta o perdono? Mitezza o aggressività? Fisicità o lirismo? Sentimento o sessualità?
Tobey Maguire è il miglior Arrampicamuri sulla piazza. Si fa il nome del grande Jake Gyllenhaal per il futuro, staremo a vedere. Ad oggi nessuno tra i volti più conosciuti ha il carisma semplice e incisivo di Tobey Maguire per ambire a nuovo Tessiragnatele. Penso solo a Justin Long, buffo e maldestro quanto istintivo e diretto. Nel film si parla soprattutto di Condanna. La condanna dell’Uomo Ragno a vivere il suo Doppio; la condanna di Flint Marko che non ha più un corpo e forse non avrà più pace; la condanna di Harry Osborne, il più amletico dei personaggi della serie, come lo era suo padre Willem Defoe nel primo episodio; la condanna di Mary Jane Watson incapace di vivere con serenità la sua vita con “l’eroe”. In questo festival del dubbio e della condanna esistenziale ci pensano gli inframezzi comici di J.J. Jameson e la cattiveria primitiva di Venom, a dare tregua al leit-motiv di questo terzo episodio.
Ma come di Condanna, si parla anche di Vendetta e del suo opposto ingrato: il Perdono. Tutti i personaggi funzionali alla storia vivono a livelli diversi il cruccio di Amleto, ma la calzamaglia la porta solo uno di loro. Se nel primo episodio si creava l’immaginario spidermaniano puntando su una grammatica ispirata al mondo del fumetto e strutturando il supereroe su basi esistenzialiste, e nel secondo si iniziava ad affrontare il dualismo insito nell’essere umano, nel terzo episodio si continua sulla strada del linguaggio stlizzato e della ulteriore stilizzazione dei personaggi, ma si affonda nella chirurgia degli stessi e si amplifica anche visivamente l’indagine sul dualismo. I personaggi per esempio non rimangono sullo sfondo, ma prendono atto del loro essere nella storia. Flint Marko segue le orme del Green Goblin e del Dock Ock, anche loro cattivi “duplici”, scespiriani, sfumati, articolati e complessi esistenzialmente. Peter Parker vive il suo doppio con la forza espressionista che nasce dalla consapevolezza di Sam Raimi “regista consapevole”. Quando indossa la tuta nera del simbionte alieno, Peter ricorda il Conrad Viedt de “Il Gabinetto del Dottor Caligari”. Con questo suo look cesariano prende possesso della sfida che credo di aver individuato leggendo il film: rappresentare l’interiorità inquieta dei personaggi attraverso un’esteriorità deformata, grottesca, fatta di luci e di ombre. Come un esperpento valleinclanesco, la critica ad un costume sociale degradante arriva attraverso il gusto per il contrasto, oppure attraverso la distanza dell’autore dal suo eroe: avete fatto caso che né Peter Parker né Spider-Man vengono inquadrati dal basso e quindi non identificabili come segni di grandezza? Diciamo che il punto di vista di Raimi è più scespiriano che valleinclanesco. Come il bardo inglese infatti, Raimi vede i suoi eroi a sua altezza, anche se di Valle-Inclan ricorda la distanza ravvisabile nei tentativi grotteschi di far apparire l’eroe come una persona più che semplice, quasi prosaica.
Ma non si esaurisce di certo qui la profondità artistica di “Spider-Man 3”. Si allarga infatti, come dicevo prima, al parco attori. Oltre alla parata di caratterizzazioni e comparsate d’onore come Bruce Campbell, divertentissimo metre francese; come un James Cromwell, francamente inutile, ma sempre godibile; come una Teresa Russell che tocca e fugge; e soprattutto come l’incursione metatestuale del papà di Spidey, ovvero Stan Lee, la cui comparsata “fa la differenza”! Oltre a questa parata, il film si costruisce tutto sui conflitti, gli incontri e gli scontri dei personaggi principali: il triangolo Peter-Mary Jane-Harry e le opposizioni Peter/Harry, Spidey/Sandman, Spidey/Goblin e Spidey/Venom. E mentre di Tobey Maguire ho già detto quanto sia importante per la serie, vorrei dire due parole su chi, a questo giro, se le merita tutte. Conosco da sempre sia James Franco alias Harry Osborne, sia Topher Grace alias Eddy Brock/Venom. Il primo finalmente si prende lo spazio che si merita e ruba letteralmente la scena a Maguire grazie alla sua stoffa tutta istintiva e da metodo (non per altro è stato James Dean in una fiction recente). Il secondo invece, direttamente da “That ’70 Show”, in cui era il mite, buffo ed imbranato Eric Forman, si presenta al grande pubblico per quello che è: un attore dalle grandi doti istintuali a cui la tv andava stretta. Entrambi gli attori sono nati nel 1978, come il sottoscritto, a rimarcare questo che si tratta di una grande annata, e Topher Grace tra l’altro nel mio stesso giorno, il 12 di luglio. Entrambi sono entrati nell’immaginario spidermaniano attraverso la porta scomoda ed affascinante dei villain. E non è un caso. L’abilità che i due cattivi di turno sfoggiano nella presenza scenica, soprattutto quando non si vola e non si lotta, è la prova che le mie parole non sono sprecate.
Purtroppo il finale è troppo esagerato, incasinato, condito con del buonismo così retorico da spiazzare. Come quella bandiera americana che sventola alle spalle dell’Uomo Ragno dopo che s’è liberato della sua parte nera, anche se può essere interpretata come un invito a sentirsi americani solo dopo essersi tolti quell’anima nera, che oggi può essere letta come l’Iraq e l’Afghanistan, o meglio l’amministrazione Bush. Il “Io ti perdono” dell’Arrampicamuri, ha fatto ridere molti in sala. Io invece trovo che quello snodo intenzionale sia il più coraggioso dell’intera saga, e sforbicia l’aria buonista che il finale aveva assunto. Fa strano infatti vedere un supereroe rifiutarsi di castigare il cattivo, dopo che lui stesso lo è stato ahilui. Ma il punto è questo: Spider-Man non è un supereroe, ma un super-antieroe.

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