Regia di Larry Charles vedi scheda film
Ci sono due scuole di pensiero intorno a Borat, fenomeno cinematografico dell’anno (se non altro dal punto di vista del marketing). E sono due scuole contrapposte completamente: c’è chi lo considera orripilante, perché sciocco, volgare e insensato, chi lo considera geniale poiché provocatorio e coraggioso. La differenza tra queste due scuole sta nella capacità di leggere o non leggere tra le righe il significato sotteso dell’intera pellicola.
La trama parla di un giornalista kazako, che va in America per documentare come si vive nel paese più grande del mondo. Vede una puntata di “Baywatch” e si innamora di Pamela Anderson, andando fino in California per incontrarla.
Ma la trama, come insolitamente accade in un film-commedia, qui è secondaria. Ben più importante è sottolineare da dove parte Borat, dove e come vi ritorna, e soprattutto qual è il suo impatto con gli Stati Uniti.
La particolarità del film è quella di celare dietro la clamorosa ingenuità e seraficità del suo protagonista, una tremenda satira sociale, uno squassante schiaffo alla politica americana, che trasforma il manicheismo di tutte le sue sequenze in un’imperitura condanna.
Sacha Baron Cohen fa il Peter Sellers, parla più strano di un dislessico che viene dalla Cracosia, è politicamente scorretto, ma ingenuamente, quasi fosse un Forrest Gump che al posto del quoziente intellettivo ha la cultura a farlo essere un diverso.
Chi considera “Borat” un filmaccio non guarda al di là del suo naso. Chi lo considera un filmone dovrebbe rivederlo, per scoprirne ulteriori valori semantici sottintesi.
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