Regia di Larry Charles vedi scheda film
Ridere sotto i baffi. Questo è l’atteggiamento opportuno che si deve mantenere durante la visione di Borat. Perché, infatti, si ride di gusto, ma ci si intristisce per le verità raccontate.
Borat è un film che non ha, in fondo, una sostanza formale e stilistica, ma è importante che ci sia per la sua capacità di estremizzare, fino all’eccesso, problemi di per sé già eclatanti, quali il razzismo e i preconcetti legati alla razza.
Il merito è senz’altro del giornalista kazako, Borat Sagdiyev (Sacha Baron Cohen, ideatore, scrittore, produttore e interprete ultra trasgressivo inglese), un po’ volgare e sprovveduto, che arriva negli Usa per realizzare un reportage sull’America moderna. Essendo anche un uomo, specie per il suo mestiere, politicamente corretto (nell’arte del racconto), l’impatto con gli Stati Uniti non è dei più facili: sia quando è fra la gente, ma soprattutto quando è dinanzi a tutto quanto passa attraverso la televisione.
Borat è come un kamikaze, si lancia contro ogni forma di fondamentalismo: da quello delle donne, delle femministe, degli ebrei, degli afroamericani a quello degli omosessuali. Tuttavia, non si può non menzionare che l’attore Cohen sia un ebreo praticante inglese e di ottimi studi. E’ chiaro che il suo intento è stato quello di spiaccicare in faccia al mondo del cinema gli orrori della società, le brutture del mondo, senza sottintesi o giri di parole, come ormai in pochi eletti sono capaci. E’ incredibile come le stesse persone che si scandalizzano per le idee e i modi di fare di Borat, risultano a loro volta più razziste e moralmente ignobili rispetto al protagonista. E se la seconda parte fa “inkazzare” gli americani, nel prologo ce n’è anche per il Kazakistan, popolato da puttane, zotici, stupratori e antisemiti: “Noi non abbiamo gladiatori, cowboy o samurai, ma possiamo contare su zingari fenomenali. Con l’Inghilterra di Blair intratteniamo poi rapporti splendidi: tutti e due commerciamo fruttuosamente con l’uranio.”
Di che ridere ce n’è per tutti i gusti: dall’esibizione da nudista, all’incontro di wrestling/kamasutra con il suo lardoso produttore, passando attraverso il pranzo con Borat e le sue feci nel sacchetto e il tentativo di rapimento da parte dello stesso della super dotata attrice americana, Pamela Anderson. Come resistere alla gaudente volgarità della battuta di colei che chiede a Borat: “Vuoi entrare?”, attraverso la porta di casa, e lui che risponde: “Io ti entrerei di gusto.”
Cohen lo avevamo conosciuto in Ali GShow (2002), con Borat la sua popolarità ormai è di garanzia mondiale, ed è giusto che sia così, visto che con questo film lui e il suo regista, Larry Charles, riescono più loro a raccontare gli usi, abusi e disusi degli americani e non solo, che i mille documentari o film di tanti sedicenti “registi e attori impegnati (in cosa?).”
Giancarlo Visitilli
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