Regia di Brad Bird, Jan Pinkava vedi scheda film
Per chiunque è ‘topo’ di fogna, di strada, di campagna, di baracca… è dura la vita. Anche per Remy, un topo dall’olfatto sviluppato, nonostante il suo arduo compito e la buona ‘dimora’ in cui s’è accampato, dopo lo sfratto dalla campagna dell’intera colonia e l’arrivo a Parigi, nel ristorante del deceduto chef Gusteau, che con il suo libro “Tutti possono cucinare” ha ispirato la sua passione per la cucina.
Infatti, fra i fornelli e fra i capelli di un somigliante Rosso Malpelo, Remy si muove come un abile artista, solo che al posto dei pennelli o dello scalpello da scultore, muove le ciocche di capelli rossi con i quali muove i fili (le braccia) dello sfigato e giovane apprendista Linguini. Questi sta preparando una zuppa che diventerà il piatto doc del ristorante, ma non per causa sua.
Da quanto tempo non si vedeva un film d’animazione di ottima fattura, come Ratatouille. Si ride, si riflette e si potrebbe anche piangere, per i molti messaggi ben ‘dosati’, che questo film (a tutti gli effetti) offre a chi è in sala.
In realtà, il vero grande cuoco della situazione è proprio il regista Bird, ormai un vero mago della cucina-cinema-animazione, targata Pixar. Ci sono alcune sequenze del film e alcune soluzioni tecniche (il mimo di Remy è degno del miglior cinema muto), che danno i brividi, come nel caso di alcuni movimenti di camera complessi e vertiginosi, mai fuori luogo. A ciò si aggiunga una sceneggiatura serratissima, con alcuni dialoghi che incantano per il loro sarcasmo e per la ritmata comicità, oltre che per la loro vicinanza alle storie che ogni giorno riempiono i nostri quotidiani.
Infatti, a cos’altro possiamo paragonare la vita di Remy, se non a tutti quelli che ancora oggi tentano quel viaggio di fortuna, dai bassifondi alla gloria (mai raggiunta)? Perciò Remy è simile a tutti quegli uomini e donne che, scacciati dalle loro terre, dalla fame e dalla guerra, come topi, stipati in navi logore e fracide, spinti dalla corrente, dei venti, del mare e del caso, tentano di raggiungere almeno quel primo gradino che sta al di là del bassofondo, in cui tutto è monnezza e cacca. Per quanti ci riescono “la vita è dura” comunque, proprio come quella dei topi: o ti arrangi, nascondendoti nei tuguri delle nostre civili città, privandoti anche della normalità (una donna, una casa, la famiglia e tutto quanto comporta) oppure devi affidarti al caso, ma rischi di finire come Remy in luogo da dove è possibile vedere il mondo attraverso i fori, per Remy del colapasta, per molti extracomunitari, attraverso le sbarre di una cella.
Non basterebbe Campanella per immaginare un’altra città del sole (per dire città dell’utopia) con un topo al comando (per dire un ‘diverso’, rispetto ai nostri politicanti), contro tutti i pregiudizi di una società che vede i ratti più come “zoccole” che come abili roditori del potere altrui. Il finale del film, con il mondo degli uomini e quello dei ratti che si consolida in un’inverosimile fratellanza, potrebbe dire molto a tutti gli uomini: se la convivenza è possibile fra specie diverse, figuriamoci fra esseri della stessa specie.
Ciliegine sulla torta, il film, ne ha per tutti, anche per coloro che nella vita fanno di mestiere i critici (ciò non fanno nulla, sostanzialmente): “c'è più dignità in un’opera d’arte mediocre, che in una mia stroncatura, che pur è divertente da scrivere per me e da leggere per voi".
Ci sarebbe piaciuto che alla fine Remy morisse, per evitare la tentazione delle possibili sue resurrezioni (Ratatouille 1, 2, 3…), come nel caso dell’Orco della Dreamwork.
Giancarlo Visitilli
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