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The Good Shepherd. L'ombra del potere

Regia di Robert De Niro vedi scheda film

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La recensione su The Good Shepherd. L'ombra del potere

di giancarlo visitilli
6 stelle

“In fondo non siamo tutti i calzolai di un re, in qualche modo?”. Chi più, chi meno, a prescindere dai grandi o piccoli democratici o meno, “siamo tutti figli di un dio minore”, chiamato potere, per raggiungere il quale si è capaci di tutto.
Questo il contenuto del secondo film dell’attore-regista di Robert De Niro, già dietro la macchina, tredici anni fa, con il bellissimo Bronx. Chi conosce De Niro sa del suo grande interesse nei confronti della politica internazionale e della cosiddetta intelligence.
Il film, scritto da Eric Roth, già autore di alcuni fra i migliori script di questi ultimi anni (Munich, Insider, ecc.), racconta la storia della CIA, attraverso la vita di Edward Wilson, un uomo che ha deciso di mettere la propria patria, e soprattutto la sicurezza della stessa, al di sopra di ogni altra cosa, persino della propria famiglia.
La narrazione fa un eccessivo uso di flashback, che coprono un ampio tempo storico, che va dalla fine degli anni Trenta fino alla guerra fredda. Tuttavia, il film, nonostante sia un “concentrato” della storia delle CIA, pecca in lungaggine (quasi tre ore). Non bastano le tante (e quasi tutte impeccabili) star, da Angelina Jolie, Matt Damon, John Turturro, Alec Baldwin, Joe Pesci, fino allo stesso De Niro, per rendere piacevole quell’immobilità (almeno del sedere!) su di una poltrona per quasi tre ore. Tra l’altro, pur riconoscendo in De Niro uno dei migliori attori, non solo fra quelli italiani, dobbiamo riconoscere una non sua altrettanto eccellenza nel saper dirigere: nel film troppe volte ci si annoia, ci si aspetta che prima o poi arrivi il momento di almeno un qualche coinvolgimento emotivo, almeno nei confronti di qualcuno dei personaggi della storia, invece tale emozione non arriva mai.
Ci dispiace ammetterlo, ma ci si chiede: “che ne sarebbe stato di ‘sto film, nelle mani (e nella testa) del compianto John Frankenheimer?”. Infatti, pare che De Niro si sia insediato in un progetto che era stato caro all’autore di Ronin, che glielo avesse rivelato proprio sul set di quest’ultimo film.
Sicuramente il film avrebbe peccato meno non solo in lungaggine, ma soprattutto sarebbe stato meno bigotto. Non ci saremmo trovati la scritta biblica in primissimo piano, all’ingresso del palazzo della CIA: “E tu saprai la verità, e la verità ti renderà libero”, perché se c’è un posto dove non si potrà mai sapere alcuna verità è proprio lì dove esistono i servizi segreti, non solo americani. Ci basti dare uno sguardo alle notizie in materia all’uccisione di Nicola Calipari.
Che dire poi, della geografia del mondo, secondo Roth-De Niro. Forse, l’unica commozione, raggelante, è quando uno dei protagonisti del film ammette: “Noi italiani abbiamo la chiesa e la famiglia, gli inglesi la loro madre, gli ebrei la loro tradizione, gli americani gli Stati Uniti”. La tentazione da parte dello spettatore è quella di urlare un “amen” in sala, tentando di destare colui che magari, alla sedia accanto, dondola con la testa, per l’eccessivo torpore che il film ha il demerito di offrire.
Giancarlo Visitilli

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