Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
I corpi sono falciati dalla violenza della guerra e dimenticati dal tempo, cancellati dalla sconfitta, ma le parole dei soldati giapponesi che hanno combattuto la battaglia di Iwo Jima sono rimaste nelle lettere seppellite da uno di loro nelle caverne dell'isola. Con la stessa livida fotografia e l'assenza di retorica di Flags of our fathers, Eastwood torna a raccontare quel sanguinoso episodio, ora dal punto di vista giapponese, e descrive gli ultimi giorni di un impero al tramonto, la vita di soldati costretti a difendere un luogo simbolico senza sostegno militare e con la certezza di andare incontro ad un massacro.
Circoscritto nel breve tempo dei preliminari dello sbarco americano e della battaglia, costretto sull'isola e nelle sue grotte, il film è più stanziale del precedente, ma affronta ancora il tema della memoria personale, del lascito dei soldati alle generazioni successive messo a confronto con la storia e la memoria collettiva. In un contesto nipponico si inserisce, oltre alla memoria, anche il concetto di onore. Se la retorica ufficiale non ha più spazio nel momento della sconfitta, rimane il residuo tentativo di salvare una dignità precaria rifacendosi ad ancestrali rituali, dandosi la morte per non incontrarla per mano del nemico perché la sconfitta è disonorevole e la fine autoinflitta è una migliore dipartita.
Ammassati nelle grotte mentre in superficie infuria la battaglia, tra ufficiali che si arrabattano per infliggere quante più vittime all'avversario che avanza, i soldati sono lacerati tra istinto di sopravvivenza e l'ordine al macello, sono combattuti tra la necessità di resistere, la voglia di arrendersi e l'imposizione del sacrificio rituale che dovrebbe dare una qualche dignità alla morte. Ma il seppuku toglie qualsiasi parvenza di valore alla vita, sceglie la via di fuga dell'onore verso quella gloria posposta nell'aldilà che il campo di battaglia nega. La retorica di stato o della tradizione vorrebbe apparentare la sconfitta ad una vittoria interiore, postulare la superiorità giapponese nella scelta estrema così incomprensibile per gli occidentali, falsare la storia e ammantarla nel mito. Come la foto dei soldati americani nel primo film, la politica preferirebbe l'abbellimento della finzione alla triste realtà, talmente più banale, sorvolare sull'identità personale per affermarsi nell'estetica, cercare di far dimenticare che ogni guerra è combattuta dai singoli soldati, costa sofferenze, dolore e non ha nessuna bellezza. E che il suo costo è sempre superiore a qualsiasi conquista.
Perfetto controcampo di Flags o our fathers, anche in Lettere da Iwo Jima i nemici sono sporadiche apparizioni di divise differenti, di armi spianate, sono un avversario senza volto né nome ma tale per definizione. Perché ogni guerra si fa su due fronti opposti di uomini uguali, assillati dalle medesime paure, gettati nella mischia di una macchina fatale comandata a distanza dai quartieri generali, in cui ogni identità si cancella nella confusione dei colpi d'arma da fuoco. La morte livella le differenze e accomuna i due opposti campi, e basta un breve incontro con un prigioniero americano a rivelare una somiglianza che la retorica imposta aveva negato, impone una dignità e la possibilità di un reciproco rispetto che svelano, empiricamente e con disarmante semplicità, la fallacia della ragion di stato. Negare ogni umanità al nemico per giustificarne il massacro e l'annientamento è la fonte di sopravvivenza e l'alimento di ogni politica bellica, mentre il sangue è sempre dello stesso colore.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta