Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
"Letters From Iwo Jima" è un film in giapponese. E' un film sottotitolato. E' un film di Clint Eastwood. Con questo film Clint chiude il dittico su una delle più celebri battaglie della seconda guerra mondiae, pur non parlando della guerra stessa. Se "Flags of Our Fathers" denunciava un'intera nazione, e ridimensionava lo stolto patriottismo americano, che nel cinema eastwoodiano si traduce in cinismo e amoralismo, questo "Letters From Iwo Jima" si fissa sull'umanesimo eastwoodiano tessendo i fili di una favola, sia esteticamente con un senso iconograficamente estraniante, sia narrativamete con storie labirintiche ed esemplari. Nell'inferno nero, nero per la terra di quell'isola che non dà vita, Clint lascia a piede libero i suoi personaggi, su tutti il generale Kuribayashi di Ken Watanabe, anticonvenzionale come il regista, l'umano barone Nishi e il soldato semplice Saigo, filo rosso che avvicina le varie storie personali. C'è chi dice che "Letters" non è un film pacifista, così come non lo era dichiaratamente "Flags", ma che piuttosto il primo episodio doveva fare i conti con esigenze di manifesto, e questo secondo capitolo invece è puro umanismo. Credo invece che in "Flags" sia deflagrante la rottura della retorica patriottistica e c'è poca speranza negli occhi di chi ha fatto quella guerra. In "Letters", invece, la guerra quasi resta sullo sfondo. Poche le scene di combattimento vero e proprio, seppur feroci e crunte, ma ciò che Clint fa è un'operazione di mimetismo. Nelle trame del racconto per immagini (il film si segue bene anche senza fare caso ai sottotitoli), il regista parla di uomini, e non di soldati. Questo per significare che la guerra è inutile, inumana e disumana.
A suo modo "Letters" è un western. Un western bagnato dall'oceano. Non ci sarà il deserto dell'Arizona, ma quell'isola è un deserto ugualmente. E poi abbiamo la vita brada, gli accampamenti, i villaggi in cui c'è pure lo spazio per un uomo a cavallo, e infine le sparatorie, i morti ammazzati e il nemico. E se questa analisi filo-westerniana fosse accreditabile, non si tratterebbe di un'ingerenza della cultura americana nell'iconografismo giapponese. Infatti ogni popolo ha avuto il suo western (e non il suo West), ovvero la sua età dell'oro, vera o presunta, in cui collocare i sogni e i rimandi di un altrove e di un altrieri. Clint, il più grande regista americano vivente, i cui film sono anticonformisti spesso solo in seconda lettura (e questa né è la grandezza), non fa altro che continuare a raccontare quell'altrove e quell'altrieri. E lo fa grazie alla fotografia desaturata di Tom Stern, che fa del luogo un non-luogo. Lo fa con l'iconografia, creando una set decoration estraniante in cui il dissociato protagonista, il davvero bravo e simpatico Kazunari Ninomiya, si muove come un uomo di vetro in un mondo di spigoli. La cosa strana del film, è che ti prende qualcosa in gola dall'inizio alla fine. Non riesci a capire se è per questa storia disarmante sulla ferocia della guerra, o se è il film stesso che dalle immagini ti conduce in un luogo dell'anima triste e nero. O forse commuove perchè a dirigere un film come questo è Clint Eastwood. Con tutto ciò che si porta dietro.
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