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Lettere da Iwo Jima

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Lettere da Iwo Jima

di ROTOTOM
8 stelle

Iwo Jima memoria di un’immane tragedia, isola pietrosa ficcata nell’oceano immobile come una lapide. La lapide testimone della tragedia di un mondo in guerra, di una nazione già sconfitta e ingannata, di manciate di vita buttate lì a caso a difendere sassi e pietre affidando la memoria di un sacrificio inutile alle lettere scritte e mai inviate a casa. Iwo Jima terra sacra per i giapponesi, terra strategica per gli americani che dalla conquista dell’atollo mirano come base di partenza per fiaccare Tokio, altrimenti irraggiungibile. Il film è il contraltare di Flags of our father specchio delle vite spezzate di parte americana, simbolo di quell’America che si riconosce nei marines che issano la bandiera sul monte dopo aver conquistato l’isola e aver lasciato migliaia di morti a seccare al sole. Un sole rosso in campo bianco triste araldo del fungo rosso nel bianco del calore che da lì a pochi mesi spazzerà via in un’apocalisse due città intere, bandiera che schizza di sangue nella fotografia de-saturata di un film glaciale, Eastwood recupera il dolente minimalismo di Mistic River e Un mondo perfetto e racconta di uomini, lontani per cultura, tradizioni, superstizioni a quelle occidentali e che a noi sembrano aliene. Li impregna di morte e fischi di pallottole, di paura nascosti nelle caverne con i mostri che bombardano la roccia soprastante. E’ un film alieno e di alieni Lettere da Iwo Jima, alieno nell’idioma originale delle voci dai suoni incomprensibili, nei complicati ideogrammi che illustrano la pena e le speranze per una guerra non da tutti compresa, intrisa di misticismo e di sconosciuto senso dell’onore. E’ un film alieno per chi guarda, per l’occhio di un occidentale che si mette dalla parte avversa, un americano che si immagina contro se stesso, ma è alieno anche per i giapponesi arretrati tecnologicamente rispetto ai nemici, legati alla sacralità della terra, al divino imperatore Hirohito, divisi dal punto di vista dell’ultimo dei fantaccini, tra amore di patria, orgoglio, tradizione superstizione e umana pietà e voglia di vivere. I giapponesi gli americani non li hanno mai visti, li temono come barbari, come selvaggi esattamente come la propaganda li ha descritti nel mandarli al macello e dallo sbucare da una grotta scavata a mani nude nella roccia, Saigo nel rincorrere un secchio che funge da “cacatoio” vede l’imponente flotta americana in avvicinamento e l’avverte come qualcosa di extraterrestre. Una scena che ricorda l’inizio di Indipendence Day. E capisce di essere nella merda. Lo sguardo di Eastwood non è rivolto alla guerra vista dalla parte dei giapponesi, piuttosto è un film sull’inevitabilità della guerra indipendentemente dal fatto di trovarsi in mezzo agli americani o ai giapponesi. La guerra fa parte dell’attività dell’essere umano e a questo bisogna adeguarsi cercando di sopravvivere per alcuni, cercando di combattere e morire con onore per altri, visioni diverse della propria percezione del sé a guerra finita, una visione diversa del futuro e delle sue conseguenze, inevitabile come la guerra stessa. Gli americani nemici si avvertono, si annusano, si raccontano e millantano nell’ignoranza dei piccoli bottegai chiamati da voleri superioni a scavare trincee e a sparare contro esseri sconosciuti. Gli americani amici si ricordano con affetto e rimpianto nelle esperienze Usa del Comandante (un gigantesco Ken Watanabe) ma l’inevitabilità della guerra e dei suoi codici si stempera nell’ammissione del comandante ospite, in un flashback illuminante, alla cena di commiato dal suo periodo americano, che in caso di guerra avrebbe fatto il suo dovere di soldato. La scelta cambia il corso degli eventi, poiché l’uomo è padrone del proprio destino, come il protagonista Saigo, panettiere con moglie giovane e incinta a casa, decide di disattendere a tutti i codici di onore militare previsti, suicidio compreso (agghiacciante il suicidio di gruppo di tutta una squadra ormai in trappola) facendo di tutto per provare a sopravvivere, Eastwood decide di mettere al centro l’uomo, non il fatto storico, solo accidentale per raccontare LA guerra, non quella guerra in particolare e di come di fronte ad essa tutti gli uomini, anche se gli uni alieni agli altri siano fondamentalmente mossi dalle stesse paure, le medesime speranze, scarnificandoli di tutti quegli orpelli, sociali, morali, religiosi e patriottici che ottusamente interrompono lo scorrere dell’intimo bisogno di esistere, portando l’uomo ad essere parte di un disegno collettivo del quale non si intravede salvezza, denudandolo fino a mostrarne l’essenza primaria, la base della piramide dei bisogni. La vita. E del suo bisogno di futuro, la necessità di un tempo che migliori un passato tragico, che funga da testimonianza per ciò che è stato. La vita descritta nelle lettere sepolte, nascoste, difese dall’incedere della distruzione, dall’inevitabilità della morte, preservate in attesa di un futuro che possa comprendere e imparare dal passato, seminate nella speranza di un germoglio di vita migliore. Un film bellissimo quindi, umano e carico di significati che vanno ben al di là del mostrato, caratterizzato da prove di attori maiuscole, pregne di grande intensità emotiva incastonate in una messa in scena asciutta ed essenziale, priva di inutili ridondanze o sovrascritture. Un film scarno e potente, tutto nervi e anima assolutamente migliore del vincitore dell'Oscar 2007 nonchè di Million Dollar BAby dello stesso autore. Ma tant'è l'inevitabilità dell'Academy, aliena molto spesso a ciò che istituzionalmente rappresenta.....

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