Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
“Scavo la fossa, chissà se sarà la mia fossa?”. Con questo interrogativo emblematico si apre la ‘seconda puntata’, che segue Flags of our Fathers, dello straordinario film di un grande regista e uomo di cinema, Clint Eastwood.
Tratto da libro “Picture Letters from Commander in Chief” di Tadamichi Kuribayashi, il film è una fedele trasposizione di quel male assurdo ch’è conseguenza di ogni guerra. Anzi, è un dolore che, come non mai per noi occidentali, è raccontato e descritto dai nemici, essendo la guerra combattuta tra giapponesi e americani. E’ il primo film di produzione hollywoodiana girato quasi integralmente in giapponese.
Infatti, alcune unità dell’esercito giapponese, sono incaricate di difendere l’isola di Iwo Jima dall’attacco degli americani. Sicuri dello scontro, i giapponesi sanno che dovranno affrontarlo con forze decisamente impari. Grazie alla guida del generale Kuribayashi, che ha vissuto alcuni anni negli Stati Uniti, e del campione olimpico d’equitazione di Los Angeles 1932, Baron Nishi, la battaglia durerà ben quaranta giorni, prima della resa dei pochissimi sopravvissuti giapponesi.
I meriti di questo capolavoro vedono in team, oltre che a Eastwood, un produttore esecutivo e qui anche soggettista, Paul Haggis, e il coproduttore, Steven Spielberg.
Letters from Iwo Jima ha l’enorme vantaggio di essere attentissimo al sistema dei valori che guidava l’esercito giapponese in guerra: dal patriottismo nazionalistico, ispirato dall’appartenenza ad un Impero, all’accondiscendenza ad un potere imperiale ch’è temporale e spirituale insieme, ma anche il desiderio di morte per l’onore patriottico, che si spingeva fino al suicidio. Anzi, se con Flags abbiamo visto la guerra e tutto quanto essa comporta (la stampa, la politica, il combattimento, ecc.) dal punto di vista degli yankee, questo secondo episodio su Iwo Jima si sofferma proprio sul “perché combattiamo?”: interrogativo, questa volta, posto da voce nemica.
E’ il racconto degli uomini, sofferenti perché combattenti. Sembra che Eastwood abbia ripreso i migliaia di casi dei tanti ragazzi giovanissimi, americani, arruolati per l’Iraq. Gente semplice, povera, affamata, costretta a partire in guerra. Lo dimostra un dialogo umanissimo fra il soldato semplice e il suo capo: “Sei un soldato o no?”, “No signore, sono un semplice panettiere”.
E se con Flags la luce c’era da qualche parte, questa volta non vi sono più spiragli: tutto è buio, merito di una fotografia algida e glaciale, che rasenta il bianco e il nero, di Tom Stern. E’ anche questa che rende tutto irreale e inumano. E’ la guerra raccontata dalle viscere della terra, attraverso le tante riprese dal monte Suribachi, da cui si vedono formicolare i nemici sulla spiaggia, il mare annerito dalle barche, l’aria satura di zolfo, finanche il respiro ansimante dei soldati. Anche allora, come oggi trentamila uomini uccisi. Le stesse promesse da parte di uomini alle loro mogli, magari gravide sin dalla loro partenza. Anche qui non c’è menzione alcuna per il ritorno.
Quel che maggiormente continua a stupirci di Eastwood è la sua capacità di riassumere un po’ tutto il cinema che, seriamente e con rispetto, ha saputo raccontare l’orrore della guerra: da La sottile linea rossa a Tora! Tora! Tora!, da La battaglia di Midway a Salvate il soldato Ryan, da L’impero del sole a Apocalipse Now, passando, naturalmente, per Orizzonti di gloria.
In più Eastwood ha la grande sapienza di “fare ciò che è giusto, perché è giusto”: appunto, raccontare l’atrocità della guerra, senza mai schierarsi dalla parte di alcun giusto. Perché lui sa che in guerra tutti sono ingiusti.
Giancarlo Visitilli
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