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Lettere da Iwo Jima

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Lettere da Iwo Jima

di (spopola) 1726792
8 stelle

Questo non e è un film antibellico nell’accezione classica del termine perché al di là di ogni condivisibile condanna verso tutte le guerre, ciò che interessa a Eastwood e che da lui viene posto in piena luce, è il tema universale della difesa della dignità di ogni essere umano e di ogni cultura senza alcuna distinzione. Da vedere e rivedere

Era partito per fare la guerra

per rendere onore alla sua terra…

 

Lettere da Iwo Jima, è senza ombra di dubbio uno dei film più interessanti ed emozionanti non solo fra quelli che parlano della Seconda Guerra Mondiale, ma dell’intera storia del cinema, riferita ovviamente a pellicole che trattano più in generale proprio le scottanti tematiche (anche etiche) strettamente connesse a ogni attività bellica passata, presente e futura, stigmatizzandone la portata tragica e il carico di morte e dilaceranti distruzioni che si porta dietro.

Per quel che riguarda l’America poi, può essere considerato anche una sorta di importante e necessario risarcimento morale – sia pure tardivo – all’onore e alla memoria di quei “musi gialli”, implacabili nemici e spietati avversari di un conflitto epocale anche ideologico, ma comunque sempre uomini e patrioti, baluardi estremi buttati allo sbaraglio per la salvaguardia del loro territorio oltre che dei loro forse discutibili “valori”, e come tali, in ogni caso altrettante “vittime” innocenti e sacrificali di un disegno molto più grande e perverso (come lo sono tutti i morti “inutili” delle disumane mattanze di ogni conflitto armato perpetrate “in nome e in difesa” delle bandiere dei propri padri o di un astratto senso della “libertà”), esattamente come lo erano i protagonisti del film “gemello” (Flags of Our Fathers, appunto) realizzato in contemporanea sempre da Eastwood, e al quale, pur operando su una corrispondente linea di accorato umanesimo antibellicista, quest’opera si contrappone (non solo visivamente, ma anche narrativamente) proprio diversificando il punto di osservazione delle cose con una eccezionale forza dialettica intrisa di dolente umanità e di poesia che emerge prepotentemente proprio da tutto il lavoro di ricostruzione e ricomposizione analitica dei fatti qui sviscerati però più sul versante privato che su quello dell’azione militare vera e propria che pure resta una importante parte anche storicamente rilevante, di tutto il racconto e della corrispondente messa in scena.

Si può quindi concordare pienamente con G. Imperatore quando scrive che sono le donne, le madri, i figli e la madrepatria il vero controcanto di un’opera per più di un verso struggente come questa che sceglie di portare in primo piano – credo per la prima volta nel cinema di guerra occidentale –  un uomo di potere come il generale guerriero Kuribayashi, personaggio reale a cui era stata affidata la strategia difensiva giapponese dell’isola di Iwo Jimache aveva comportato la necessità di scavare nella roccia vulcanica oltre 18 km. di tunnel e di trincee, e adottando per questo il punto di vista  - ma non certamente le ragioni – del nemico perdente ormai destinato alla sconfitta, per “rappresentarcelo” però più come persona e genitore (vedi il rapporto che instaura con il panettiere Saigo, un’altra figura fondamentale del racconto, che assume quasi il ruolo nella dinamica progressiva dell’azione, di figlio putativo e soprattutto di erede designato) e molto meno come uomo di guerra tout court.

Eastwood dunque più che demolire (o semplicemente scardinare) i valori del coraggio e del patriottismo, li mette semmai in forte discussione, e così facendo e senza alcun proclama programmatico, finisce anche per rovesciare implicitamente le prospettive e il senso quasi “miticizzante” del sogno americano, messo per altro già in forte discussione (o meglio ancora implacabilmente smontato, analizzato, criticato e ridimensionato) proprio con l’opera “gemella” già citata sopra.

Si può quindi concludere questo primo excursus orientativo, affermando che Lettere da Iwo Jima – esattamente come il suo contraltare “americano” -  non è un film antibellico in senso strettamente politico o semplicemente nell’accezione classica del termine, ma qualcosa di maggiormente profondo e complesso che implica una visione più vasta delle cose che supera barriere e ideologie, perché al di là di ogni condivisibile condanna verso tutte le guerre che pure emerge con assoluta evidenza, ciò che interessa soprattutto a Eastwood e che da lui viene posto in piena luce sotto i riflettori, è il tema universale della difesa della dignità di ogni essere umano e di ogni cultura senza alcuna distinzione, un elemento centrale nella maggior parte delle sue pellicole, e per ottenere tale risultato,  questa volta sceglie opportunamente di privilegiare i valori della vita e dell’esistenza, rispetto all’innaturalità feroce di ogni azione guerresca, focolaio di lutti e di dolori, un conflitto evidente (anche concettuale) qui portato quasi alle estreme conseguenze proprio mettendo in scena in modo rigoroso e radicale, i dubbi, la rigidità, ma anche il fanatismo di qualcuno, oltre che la profonda sofferenza, di personaggi “tragicamente” umani anche nelle loro contraddizioni, destinati a soccombere loro malgrado (non solo Kuribayashi o il colonnello Nishi che sceglieranno entrambi di porre fine alla loro esistenza e alle irrisolvibili incertezze che li attanagliano, suicidandosi, ma anche tutti gli altri “antieroi” della vicenda, disorientati, perplessi e scoraggiati).

 

gli avevano dato le mostrine e le stelle

e il consiglio di vender cara la pelle

 

Presentato giustamente in giapponese con i sottotitoli, proprio come richiesto dal regista (per lo meno “artisticamente” parlando, si è dimostrata  una scelta non solo “necessaria”, ma anche importante, appropriata, vincente e coraggiosa che qui in Italia è stata però a mio avviso anche la ragione che ne ha pregiudicato i risultati non proprio esaltanti in termini di incassi e di visioni in sala, per la pigrizia di un pubblico viziato dal doppiaggio “ad ogni costo”  anche quando è dannoso e controproducente e che non accetta deroghe né eccezioni considerate troppo “faticose” e quindi da evitare),  Lettere da Iwo Jima – come già accennato prima - è un film toccante e coinvolgente, o per meglio dire, un vero e proprio capolavoro intimista di quelli che aumentano esponenzialmente di valore con il passar del tempo (provate a rivederlo adesso e ne avrete una conferma “certa”), oltre che  - a mio modesto avviso – uno dei vertici assoluti del cinema di Eastwood, un’opera insomma straordinaria in cui si ritrova intatta la felicità narrativa e i toni lacerati e malinconici delle sue pellicole migliori (come Mystic River, Million Dollar Baby, Gli spietati o Gran Torino, solo per citare i titoli più eclatanti ed acclamati della sua comunque sempre eccellente produzione cinematografica). Ed è davvero una fortuna poter ascoltare le voci originali degli attori,  poiché  il doppiaggio avrebbe certamente consentito una maggiore penetrazione nel nostro mercato, ma mitigando troppo ed appiattendo inesorabilmente l’impatto empatico che arriva  proprio dal “coro” polifonico degli interpreti, reso magnificamente in ogni sfumatura oltre che dai loro corpi,  dalle giuste cadenze lessicali una volta tanto non disgiunte o artificialmente riprodotte con un altro idioma, il che crea un impasto sonoro oltre che visivo, non solo fortemente evocativo, ma anche di intensa presa emozionale, quasi che si intendesse far risorgere così persino foneticamente, le voci dei reali martiri rimaste violentemente azzittite per oltre 60 anni di negligente oblio, ma appartenute ai circa 21.000 soldati giapponesi defunti proprio nella battaglia di Iwo Jima… un’ecatombe non solo americana dunque quel deserto di fuoco già epicizzato nella pellicola del 1949 girata da Allan Dwan,  al fine di  ricordarci – imperituro monito - che nelle guerre non ci sono né vinti né vincitori, ma solo troppe morti inutili pretese dai poteri contrapposti che buttano allo sbaraglio carne umana per i loro tornaconti anche economici senza farsi troppi scrupoli.

La bellissima, struggente sceneggiatura che la nippo-americana di seconda generazione Iris Yamashita (organizzata su un soggetto costruito a quattro mani insieme a Paul Haggis) ha scritto basandosi principalmente sull’antologia “Picture Letters from Commander in Chief” dello stesso Tadamichi Kuribayashi (dalla quale ha attinto la primaria ispirazione e il senso profondo del messaggio), ma tenendo in debito conto anche i contenuti  delle molte altre lettere mai spedite dai soldati giapponesi di ogni rango che – esattamente come quelle del loro generale - sono rimaste a lungo seppellite in una grotta in quell’isola lontana zeppa di buche e di cadaveri, e lì solo successivamente – e quasi fortunosamente – rinvenute e rese pubbliche con tutto il loro carico di sofferenza.

In questo senso, la pellicola beneficia fortemente di un’insolita ottica  (e una sensibilità) tutta  femminile, invero inusuale per un film di guerra, ma necessaria e fondamentale per una pellicola che intende ricordare per demistificarla, una battaglia  che ha visto, proprio come accade sempre in ogni bellico tenzone, da un fronte e dall’altro uomini comuni a spararsi contro, obbligati  a diventare soldati portatori di lutti e distruzioni mettendo in pericolo anche la loro stessa esistenza, scaraventati in un vero e proprio “inferno” del quale tutti avrebbero fatto volentieri a meno, e dove persino la morte (comunque sempre assurda e disumana) assume facce diverse e differenti dimensioni: da quella inutilmente “gloriosa”  alla testa dei propri soldati o per far fede al proprio onore, a quella meno onorevole ma altrettanto devastante e “certa” dovuta alla dissenteria, alle privazioni, o persino al caso, a un’esplosione o a una pallottola vagante, degli umili soldati da macello.

Se nell’altro film del dittico Eastwood concentrava dunque maggiormente la sua attenzione sull’elemento politico rispetto a quello personale (che comunque ritornava prepotente nel disequilibrio disturbato dei reduci diventati “inconsapevoli” eroi utilizzati per la propaganda) qui invece – pur parlando delle stesse cose sia pure viste in differente prospettiva - la narrazione è concentrata principalmente su un’agonia straziante e prolungata che non potrà che avere esiti ferali, capace quindi di mostrarci davvero e impietosamente l’altra faccia della medaglia, rispetto all bolsa retorica ufficiale, visto che è poi l’analisi del sacrificio consapevole  di un uomo (e di tutto un popolo) che, pur convinto dell’insensatezza del conflitto che sta combattendo, decide di restare fino all’ultimo a difendere il primo lembo del “sacrosuolo giapponese” rispettando ordini e onore al quale sacrificherà la sua stessa vita.

E’ straordinario vedere con quanta lucida delicatezza il regista riesce ad esplorare e renderli palpabili anche allo spettatore, gli ultimi terribili mesi della vita del generale Kuribayashi (reso memorabile sullo schermo dall’eccellente prova di uno strepitoso Ken Watanabe a capo di una altrettanto agguerrita schiera di ottimi interpreti) e degli altri suoi uomini (schiacciati dai ricordi nostalgici della loro esistenza precedente a cui hanno dovuto rinunciare per quella folle impresa) e dare così vita a un manifesto contro la crudele insensatezza di una guerra sia essa vinta, o irrimediabilmente persa come nel nostro caso.

Eastwood riesce a vestirsi dei panni del nemico di allora – i giapponesi appunto – con assoluta naturalezza e un invidiabile dominio dello stile, riuscendo così a far diventare partecipativo anche lo spettatore alle sorti delle figure portate in  primo piano, con un racconto quasi elegiaco dove gli eroi non sono soloi militari cavallereschi come Kuribayashi o Nishi, ma anche tutti quei soldati che nutrivano l’unica aspirazione di salvare la pelle per poter tornare a casa tutti interi ai propri affetti. Per fare questo, per raggiungere tale importante risultato, il regista si affida alla “verità” delle immagini e non ha paura nemmeno di mostrare le tante crudeltà commesse dal suo stesso popolo, visto che in guerra nessuno può considerarsi “buono” o eticamente giusto.

 

ma lei che lo amava aspettava il ritorno

d'un soldato vivo, d'un eroe morto che ne farà

se accanto nel letto le è rimasta la gloria

d'una medaglia alla memoria.

 

Non solo i fanatici suicidi delle gerarchie dunque, ma il raccontare e dare voce alla moltitudine di persone semplici e disperate di ogni esercito in cerca di una (im)possibile via d’uscita per tirarsi fuori dalla tragica ecatombe che li aspetta, che riesce a fare davvero piazza pulita di tutto quel cinema “celebrativo” del passato che disegnava il popolo giapponese come quello di una massa di esaltati kamikaze sadici e feroci, ignorando così completamente la matrice umana dei più, che non diverge poi molto da quella di tutti gli altri esseri viventi del pianeta terra, che in analoghe condizioni di costrizione, non hanno solo un esacerbato senso dell’onore, ma sono animati anche e soprattutto da sentimenti contrastanti e laceranti  oltre che dalla struggente nostalgia della propria casa.

Sempre molto equilibrato e mai melodrammatico, il film si concentra per questo con altrettanta, particolare attenzione, anche sulla figura dell’altro combattente -  Saigo appunto - un umile panettiere nella vita di ogni giorno prima del conflitto, impotente testimone di quei momenti drammaticamente “terminali” e i cui pensieri angosciati vanno alla moglie lontana e alla figlia di pochi mesi che non ha ancora conosciuto e che forse non vedrà mai.

Un film dunque difficile e problematico che prendendo appunto spunto proprio da quelle lettere – tutte autentiche -  ritrovate nei chilometri di grotte scavate nell’isola nipponica,  porta alla luce le dolorose testimonianze, i pensieri, i dubbi, le angosce, le paure che uomini disperati decisero di affidare a quei fogli di carta che non era ormai più possibile far davvero pervenire a qualcuno, ormai prigionieri impotenti in attesa del loro destino, una morte certa in un luogo infernale senza acqua né cibo, e costretti a sopportare persino inenarrabili angherie da parte di alcuni scellerati ufficiali loro superiori.

Utilizzando le ultime parole di Kuribayashi (il cui corpo non è stato mai ritrovato) e quelle altrettanto “veritiere” degli altri militari, viene così descritta la dimensione umana e tutt’altro che eroica della guerra in un’opera coerente  anche nella rappresentazione visiva delle cose, notturna, calata in una oscurità rocciosa quasi sofferente e a tratti claustrofobica, che la bellissima fotografia di  Tom Stern rende in maniera magnificamente funzionale al progetto, tanto “denaturata” nelle sfumature, da rendere il colore molto prossimo a un “drammatico” bianco e nero quasi unidimensionale rotto dal rosso acceso del fuoco delle esplosioni e dei bombardamenti.

 

Come you masters of war

You that build all the guns

You that build the death planes

You that build the big bombs

You that hide behind walls

You that hide behind desks

I just want you to know

I can see through your masks

 

You that never done nothin'

But build to destroy

You play with my world

Like it's your little toy

You put a gun in my hand

And you hide from my eyes

And you turn and run farther

When the fast bullets fly

 

Like Judas of old

You lie and deceive

A world war can be won

You want me to believe

But I see through your eyes

And I see through your brain

Like I see through the water

That runs down my drain

 

You fasten the triggers

For the others to fire

Then you set back and watch

When the death count gets higher

You hide in your mansion

As young people's blood

Flows out of their bodies

And is buried in the mud

 

You've thrown the worst fear

That can ever be hurled

Fear to bring children

Into the world

For threatening my baby

Unborn and unnamed

You ain't worth the blood

That runs in your veins

 

How much do I know

To talk out of turn

You might say that I'm young

You might say I'm unlearned

But there's one thing I know

Though I'm younger than you

Even Jesus would never

Forgive what you do

 

Let me ask you one question

Is your money that good

Will it buy you forgiveness

Do you think that it could

I think you will find

When your death takes its toll

All the money you made

Will never buy back your soul

 

And I hope that you die

And your death'll come soon

I will follow your casket

In the pale afternoon

And I'll watch while you're lowered

Down to your deathbed

And I'll stand o'er your grave

'Til I'm sure that you're dead

(Bob Dylan, Masters of War)

 

P.S. I precedenti pezzi in corsivo sono invece di Fabrizio de Andrè, tratti  dalla sua “Ballata dell’eroe

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