Regia di Edward Zwick vedi scheda film
La violenza irrompe con raffiche veloci e micidiali, falciando donne, bambini, uomini nel tiro incrociato dei diversi interessi che in Africa trovano terreno ideale per il confronto indiretto, campo di battaglia predestinato dell’oppressione economica occidentale, alleato ai privati egoismi dei potentati locali. Il caos convulso invade in scena con il suo bagaglio di morte e sofferenza imposte, di esodi obbligati, di ingiustizie quotidiane e si trascina nel farneticante carnasciale di razzie e abusi tra simili, nel sadismo gratuito che è il prezzo del colpo di stato. Non sembra esserci molta speranza per l’Africa, terra di saccheggi organizzati, naturalmente ricca da poter fornire all’Occidente materie prime preziose, oro o diamanti, diventando così terreno fertile per sommosse indotte al fine di tenere alti i prezzi limando l’offerta a dispetto di una domanda sempre costante. La dura legge del mercato diventa legge del taglione in un luogo che potrebbe essere un paradiso, ma che gli uomini trasformano alacremente in un insostenibile quotidiano inferno.
La violenza in Blood Diamond ha un valore educativo, si impone per la sua stessa natura allo sguardo dello spettatore, gli offre il mezzo più efficace per arrivare al nocciolo della questione. Zwick tratta il materiale narrativo con diligenza registica, rimanendo sempre ad altezza d’uomo, vicino ai protagonisti, accanto ai corpi in fuga, in mezzo al sibilare dei proiettili, all’eruttare di sangue. La violenza manifesta non è didascalia guardona, ma l’essenza della tesi incarnata dal film, il maggiore argomento a suo favore, la necessaria conseguenza sullo schermo della cronaca raccontata che sacrifica ogni bellezza all’estetica del peculato, all’etica partigiana dell’interesse privato.
Il film si apre e chiude senza Di Caprio, figura quasi marginale nell’insieme narrativo, antieroe tormentato tra una per lui inedita solidarietà umana e l’abitudine al tradimento, l’attitudine allo sfruttamento interessato, incarnazione parziale di quell’aggiornato “white men’s burden” che vede nell’uomo bianco non l’educatore, bensì il naturale predatore del popolo e suolo africano. Di Caprio asseconda con tenacia un ruolo sgradevole, reticente alla condotta virtuosa, cedendo la giusta parte dell’eroe all’africano, la cui serenità è stata per sempre cancellata ma il cui esempio può risultare rilevante. Il personaggio di Di Caprio, mercenario e trafficante di diamanti, è condannato, per necessità cinematografiche e contingenze narrative, ad una redenzione soltanto parziale perché il film ha il pregio di non offrirgli una miracolistica via di fuga, né di approfondire un plot amoroso scontato. Il protagonista termina il suo percorso sul territorio africano, di fronte al plastico splendore di una natura sconvolta dalla morte inflitta, di cui lui è insieme vittima e partecipe carnefice; il film lascia sospese conseguenze e implicazioni positive, utopie di un futuro personale e sociale migliore solo intravisto e forse nemmeno ipotizzato. I tramonti o i colori africani, di fronte a cui muore il personaggio, non alleviano la necessaria brutalità del film. La rendono più dolorosamente stridente.
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