Regia di Davide Ferrario vedi scheda film
Davide Ferrario da Bergamo è un ex critico cinematografico che ha esordito nel lungometraggio con LA FINE DELLA NOTTE (1989) e ANIME FIAMMEGGIANTI (1994), tentativi acerbi e solo in parte riusciti di affrancarsi dal minimalismo e dalla commedia italiana. La sua maggiore espressione artistica l’ha raggiunta con alcuni documentari sui C.S.I., il migliore gruppo rock degli anni novanta. Nel 1997 ha ridato linfa al convenzionale romanzo di Giuseppe Culicchia TUTTI GIU’ PER TERRA, girando con uno stile innovativo e molto personale l’omonimo film lanciando come protagonista originale e fuori dagli schemi Valerio Mastandrea. L’anno dopo è stato cooptato da Diego Abatantuono e dalla Colorado Film per FIGLI DI ANNIBALE, curiosa ma sfortunata commedia. Nel ’99 ha diviso la critica con l’audace GUARDAMI, ambientato nel mondo del porno e con vaghi riferimenti alla vita di Moana Pozzi. Ferrario ha subito un ostracismo che lo ha riportato al documentario e nel 2004 a un piccolo gioiello DOPO MEZZANOTTE, girato a basso costo e ricco di citazioni. Dopo il trascurabile e non sceneggiato da lui SE DEVO ESSERE SINCERA è tornato nel territorio libero del documentarismo impegnato e per certi versi militante. LA STRADA DI LEVI nasce dal fondamentale romanzo di Primo Levi LA TREGUA, egli con lo scrittore e critico letterario Marco Belpoliti ripercorre i luoghi geografici, sociali e politici descritti nel libro, parte dal campo di concentramento di Auschwitz in Polonia, passando per l’Ucraina, la Bielorussia e la Moldavia (allora appartenenti all’Urss), la Romania, l’Ungheria per giungere alla città natale di Torino. Il racconto si muove su due binari paralleli: le pagine de LA TREGUA e di altri racconti di Levi letti da Umberto Orsini che fanno da commento alle immagini odierne dei paesi citati dianzi. Il nostos di Primo Levi iniziò da Nowa Huta e Ferrario e Belpoliti cominciano da lì, dal regista A.Wajda e dalle ceneri dell’industria pesante, da una città - museo del comunismo da visitare con tanto di tour con le trabant dell’epoca. A Leopoli in Ucraina viene intervistata la vedova del cantante Igor Bilazir, idolo dell’identità linguistica locale contrapposta agli odiati russi, ucciso da un pugno “che odiava la canzone ucraina”. In Bielorussia, la repubblica dove il comunismo non è mai tramontato, un responsabile distrettuale dell’ideologia blocca sul nascere un’intervista a un cittadino qualsiasi costringendo gli autori a un formale controllo e a marcarli stretto nel prosieguo delle riprese e delle interviste. Regista e company travestono di ironia surreale il momento in cui il responsabile dell’ideologia suggerisce le risposte a un responsabile di un kolchoz che a sua volta elogia i progressi e la continua crescita del settore agricolo in questa terra ferma al trapassato. Tornati in Ucraina, si soffermano nella città di Prypiat evacuata vent’anni fa per le radiazioni emesse dalla centrale nucleare di Chernobyl, poi nella Moldavia spopolata dalla povertà e dall’emigrazione. La Romania che rimpiange l’occupazione sicura e programmata della dittatura di Ceasescu e non ama i rampanti imprenditori italiani. Siamo ormai in Europa, prima facendo visita al cimitero delle statue sovietiche presenti in Ungheria, dopo a Bratislava, in Austria e a Monaco tra un raduno di neonazisti e finalmente in Italia ad Asiago dove appare Mario Rigoni Stern, memoria storica di quei luoghi, il quale rimpiange un mancato incontro con Levi, ma ricorda con affetto le due poesie scrittegli e il tesoro letterario e umano che lo ha aiutato a sentirsi meno stupido e meno cattivo. LA STRADA DI LEVI, aperta dalle immagini di Ground Zero e da quelle di Levi che nel 1984 tornò ad Auschwitz, ha il merito di essere un’opera lieve e profonda, severa e sottilmente ironica come la prosa del tormentato scrittore, morto suicida nel 1987.
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