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Specchio a tre facce

Regia di Jean Epstein vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Specchio a tre facce

di Inside man
10 stelle

Dimenticato da tempo e difficilmente reperibile, Specchio a tre facce è stato senza alcun dubbio un precursore fondamentale nella storia dell’arte cinematografica.
Si tratta di un mediometraggio senza una trama ben definita, in cui la vicenda, o per meglio dire la personalità di un uomo viene rievocata, dopo un breve prologo, in tre distinti capitoli secondo i diversi punti di vista di un trio di donne sue amanti o presunte tali (Pearl, Athalie e Lucie) e si chiude con una parte finale “altra”, apparentemente neutra, nominata semplicemente “Lui”. Ognuno di questi segmenti esibisce un ritratto divergente del protagonista eppure in qualche modo tutti si richiamano e convergono in una mirabile “costruzione ad incastro”, come sottolineato da Francesco Casetti nel suo ragguardevole testo “L’occhio del novecento”, dando una dimostrazione illuminante della capacità di quest’arte in divenire (l’anno è il 1927) di scandagliare sia gli aspetti sfuggenti della “psiche umana variabilmente intrecciata ed immersa in ambienti ed oggetti in cui l’uomo stesso opera” (Paolo Bertetto) sia più in generale, i cardini della nuova filosofia dello sguardo introdotta dal mezzo cinematografico (e sviscerata nei primi anni “20 dai teorici e registi della cosiddetta premiere vague o impressionismo francese).
Con “La glace a trois face” Epstein realizza il suo capolavoro, giungendo ad un formidabile equilibrio formale basato sulla ricomposizione di una materia complessa e sfuggente e sul controllo di uno stile geniale, marcato ed avvalorato sul piano dell’immaginario da avanzate soluzioni diegetiche quali l’ardito utilizzo di flashback dai contenuti di perseverante inattendibilità narrativa (di tale commistione Orson Welles farà tesoro in Citizen Kane), l’impiego spinto di litoti e, in maniera avanzata per l’epoca, di sovrapposizioni e dissolvenze atte a scandire ora stranianti ed audaci ellissi temporali, ora il disvelamento di quei flussi di pensiero successivamente adottati, magnificamente, anche da Vigo (c'è da segnalare in ogni caso che questa tecnica, intorno al 1927, era stata comunque impiegata da vari e celebri maestri quali Murnau, F. Lang, Keaton, Vidor, Gance, Dulac per cui risulta difficile oggi assegnare correttamente una primigenitura. Tuttavia credo rimanga incontestabile il notevole rilievo creativo dell’esito qui presente).
Il film del cineasta transalpino però, anticipa anche pietre miliari quali appunto Quarto potere (di una dozzina d’anni) e Rashomon (di più di venti) su due questioni essenziali della modernità novecentesca: “il tema della relatività della verità e dell’impossibilità di giudicare un uomo” (Giulia Carluccio) secondo le interpretazioni inevitabilmente precarie date dai differenti punti di vista che compongono una qualsiasi e quanto mai illusoria “realtà oggettiva”, trasfigurata costantemente dalla soggettività di chi narra dall’interno dell’opera, a sua volta sottoposto all’individualità di chi scrive, dirige e manovra la cinepresa, a loro volta vincolati dai limiti e dalle potenzialità dello stesso strumento tecnologico; per cui del personaggio non può che “emergere un’identità basata non su un’appartenenza, ma su un gioco complesso di relazioni interindividuali. Non si è quel che si è per natura o destino, bensì per quel che si è nell’occhio dell’altro” (ancora Casetti ibid.). Ecco dunque il tema ancestrale del rapporto “osservato-osservatore” e la conseguente complementarità fra “evento e vissuto” dove infatti non è dato l'esistere dell’evento oggettivo, bensì sempre e comunque il vissuto soggettivo di quell’evento.
Specchio a tre facce si afferma persino quale pioniere ante-litteram del cinema della modernità così come verrà identificato negli anni “80 da Deleuze, tramite il concetto di “Immagine tempo” (cioè “un’immagine che mira ad una rappresentazione del tempo non più costrittiva, bensì liberatoria… dove i rapporti temporali perdono la loro centralità per dar vita a un tempo non cronologico, ove presente, passato e futuro sembrano coesistere” Dario Tomasi). Quale miglior archetipo e modello inverante del capo d’opera di Epstein, addirittura antecedente di trent'anni l’avvento delle nouvelles vagues?!
Il cinema dell'autore francese così sottilmente dirompente da essere ben più rivoluzionario di quello di molti suoi illustri contemporanei, sa quindi costruire “sequenze sull’impalpabilità delle sensazioni, sulla compresenza di motivi diversi”, e ciò avviene tramite la cosiddetta “lirosofia” (termine da lui stesso coniato), una poetica di “stati d’animo, di impressioni fugaci, di mutevolezza dei sentimenti, delle persone, e del loro divenire” (virgolettati sempre di Bertetto) che in La glace a trois face risulterà espressa nella maniera più anarchicamente compiuta della sua purtroppo travagliata carriera registica, toccando vette di sublime perfezione nella sequenza finale in auto e nel capitolo di Pearl (di lì a qualche anno arriveranno le  straordinarie e riconducibili suggestioni di Vigo).
Epstein, grande teorico dell’arte cinematografica (preminente e di nuovo misconosciuta l’importanza dei suoi scritti, intrisi di fulminanti intuizioni ed ora raccolti nel volume “L’essenza del cinema”), è stato quasi concordemente (ed erroneamente) ritenuto un regista prettamente sperimentale, quando al contrario l’acume e la coerenza della sua ricerca artistica, la talentuosa limpidezza del suo sguardo, ed il valore espressivo della sua filmografia ne attestano l’eccezionale statura d’autore.

Su Jean Epstein

Per comprendere l’attualità e l’assoluta lungimiranza del pensiero di Epstein sul cinema, in anni segnati dall’esplosione di ideologie, manifesti e formalismi poi esauritisi più o meno rapidamente, ecco alcuni suoi estratti illuminanti (redatti quando era poco più che ventenne):
“Vorrei, mentre un personaggio va incontro ad un altro, andare con lui, non dietro, o davanti o di fianco, ma in lui, e guardare attraverso i suoi occhi e vedere la sua mano tendersi sotto di me come fosse mia, e degli stacchi in nero che imitano finanche il battito delle palpebre”
 
"come noi, mentre passeggiamo, ci chiniamo per vedere meglio una pianta, un insetto o un sasso, così l’obiettivo deve inserire in una ripresa della campagna un primo piano di fiore, di frutto o di animale: nature vive. Non cammino mai solennemente come questi operatori. Guardo, annuso, tocco. Primo piano, primo piano, primo piano. Non punti di vista raccomandati, gli orizzonti del Touring Club, ma dettagli naturali, indigeni e fotogenici. Vetrine, caffè, marmocchi pidocchiosi, la tabaccaia, gesti consueti con la loro piena portata di realizzazione, una fiera, la polvere delle auto, un’atmosfera" (Jean Epstein "Le cinéma et les lettres modernes")

Su R. Ferté

Un protagonista bravo ed affascinante.

Su O. Day

Interprete molto sensuale di Pearl.

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