Regia di Mel Gibson vedi scheda film
Gli uomini pacifici, cacciatori e pescatori solo per procurarsi il cibo, vivono nella foresta. I guerrieri, gli imperatori, i sacerdoti, gli esaltati, nelle città. Quando gli eserciti dei guerrieri assalgono e catturano gli abitanti delle tribù della foresta comincia la grande orgia di sangue attraverso la quale il popolo Maya cerca di salvarsi dalle piaghe, malattie, siccità, corruzione, degrado, che lo stanno distruggendo. «Dicono di noi che siamo marci!» urla dalla cima della piramide alla folla sottostante il sacerdote che sta per compiere l'ennesimo sacrificio umano. Estinti perché marci, pare la tesi sposata da Mel Gibson a proposito della misteriosa scomparsa della fiorente civiltà Maya. Com'è sempre accaduto e continuerà ad accadere a ogni civiltà, impero romano o regno egizio, oriente bizantino o occidente contemporaneo. Nella magnifica sequenza dell'arrivo dei prigionieri nella città Maya si respira e si vive l'aria disfatta del crollo: corpi dipinti di blu, di rosso e di arancione, trionfi di teschi, montagne di cadaveri senza testa, architetture aerodinamiche e sontuose velate da una polvere malata, nani, storpi, bambini obesi e viziosi, donne evanescenti, folle esaltate ammassate in un mercato perenne e urlante che continua a chiedere sangue e, al Sole, la benedizione della pioggia. La stessa che il protagonista, Zampa di Giaguaro, destinato al sacrificio, vede come una maledizione, perché la sua donna e i suoi bambini sono nascosti in una buca nel villaggio distrutto, dalla quale non potranno uscire se non con il suo aiuto. A differenza di La passione di Cristo (e nonostante le molte implicazioni, appunto, apocalittiche sulla fine degli imperi), Apocalypto è prima di tutto un film d'avventura, che ritrova il ritmo delle fughe e degli inseguimenti, i tempi tragici delle razzie e delle battaglie (molto efficace l'assalto iniziale al villaggio del protagonista), la tensione della rincorsa con un destino che pare segnato. Costellato di "luoghi classici" (la prima sequenza della caccia al tapiro, ripresa nel finale, la pace iniziale bruscamente distrutta, la profezia della bambina colpita dalla malattia, il tuffo nella cascata e il ribaltamento del ruolo tra cacciatori e preda), ha più affinità narrative con Braveheart che con La passione (oltre a ricordare, per quel che riguarda l'immagine della decadenza, Il gladiatore di Ridley Scott e, nello spirito selvaggio e sanguinario, L'ultimo dei Mohicani di Mann). Rispetto ai suoi 138 minuti, anche la violenza esplicita (il "gore" nel quale pescava a piene mani il film precedente di Gibson) è tenuta sotto controllo: qualche zampillo di sangue di troppo, un paio di gratuiti eccidi animali, ma i cuori strappati, le teste mozzate e gran parte delle ferite inferte restano fuori campo. Quanto al maya yucateco (sottotitolato) parlato da tutto il cast, funziona davvero, con la sua sonorità atemporale e autentica, come collante della storia. Che termina con l'immagine più minacciosa: le navi dei conquistadores che si stagliano nella baia.
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