Regia di Mel Gibson vedi scheda film
Un film divino, il cui valore è misconosciuto.
Da non far vedere ai minori di 14 anni, perché la violenza è troppa. Ma, dopo, da vedere necessariamente: quanto meno perché si tratta di un brano di storia non solo verisimile, ma proprio vero. La storia è stata così in migliaia di casi, e Gibson non esagera nel metterla in mostra per ciò che è stata.
Per l’antropologia e la storia antica, non fa una piega. La lotta con la natura dei primitivi, ai fini della sopravvivenza, fa impressione, tanto è vera. Tanto è stata vera. E non c’illudiamo oltre, che il fatto di essere, almeno apparentemente, civilizzati ci esoneri dal portare, ancora a lungo (e per quanto ancora?) l’eredità genetica di tale condizione, in quanto homo sapiens.
L’esibizione del dolore, della difficoltà che l’evoluzione ha imposto, è ineccepibile. Inoltre nelle prime società civilizzate, c’era tutta la superstizione che inquinava un sano rapporto con la realtà. Qui è il culto del giaguaro, l’ignoranza sull’eclissi... con il sacerdote che ride della credulità del popolo, di cui si avvantaggia.
Strepitoso è il ritratto del diritto del più forte: incivile, disumano, foriero di violenza molto più che di giustizia e di bene. Eppure è un crisma biologico. Inscritto. Che può essere corretto solo dal faticosissimo incedere della conoscenza, coltivata a livello collettivo con competenza e onestà intellettuale, eticamente orientata verso l’identico di bene di tutti. Ma il film lascia intuire la verità: che prima di far ciò, ci vogliono millenni, cosparsi dei più aspri dolori. E non è detto che “tutto fili così liscio”; i tempi possono essere anche sempre più lunghi.
Il feudalesimo (indirettamente), la schiavitù, l’orrore della guerra espansionistica, dettata da nient’altro che non sia l’arroganza e l’avidità individualistiche: queste, che sono le cause delle massime tragedie della storia, sono qui esemplarmente pennellati; c’è gente che viene uccisa a freddo solo per il minimo sbaglio delle parole dette. Così come viene pennellata la bestialità dei “capi” in senso lato, avidi e disumani nella loro iniquità, fino a sfondare ogni porta del sadismo, perfino quella più indicibile per il suo ferino orrore. Ma anche viene pennellata la bestialità del popolo: ignoranza, conformismo, bisogno del caprio espiatorio e quindi proiezione malsana delle proprie responsabilità su una minoranza inerme. E lo sfruttamento della superstizione non è stato appannaggio solo delle religioni cosiddette primitive; anzi.
A completare il valore della sceneggiatura appare la vendetta. Il film può narrare anche meno di una settimana, con densità mirabile. Tutta la sua seconda parte vive del delirante appagamento di questo sentimento tragico, della vendetta. Non è un caso che la tragedia qui assurga ai suoi massimi livelli. La gestione degli imprevisti, infatti, e della tensione, è massima. La sceneggiatura impone allo spettatore situazioni estreme ma del tutto realistiche.
Indimenticabile, inoltre, è lo scioglimento finale della tensione: a salvare l’eroe è, casualmente (ma causalmente solo in apparenza, come un Tasso si sarebbe imposto di scrivere a riguardo) l’arrivo dei cristiani. Gibson, che (se non erro) ai tempi del film era ancora un cristiano radicale, mostra qui l’avvertenza di non esaltare oltremodo tale arrivo. Infatti la moglie del protagonista gli chiede “cosa facciamo, andiamo incontro a loro, o no?”. E i due unici superstiti nell’inseguirlo, non a caso, smettono di cercare di ucciderlo al fine di andare incontro a tali, apparentemente pacifici, visitatori. Ma l’eroe/protagonista/marito le risponde che è meglio scappare nella foresta: il loro rifugio. Sia perché ne han passate sin troppe (mirabilmente mostrate da Gibson); sia, e soprattutto, perché i cristiani da lì a breve cagioneranno il loro genocidio, uno dei più terrificanti che la storia ricordi. Se i Maya qui fanno ribrezzo, i cristiani nelle Americhe han fatto ben di peggio.
Indimenticabili, a maggior ragione perché erano difficilissimi, anche la fotografia, la colonna sonora, il trucco e i costumi (splendidi quelli dei capi Maya, tratti dagli animali).
Stupendo è anche il rispetto dei nativi: il loro capo sopravvive perché conosce quella porzione di terra come nessuno. Sa usare dei serpenti, delle api, dei giaguari, delle cascate a suo vantaggio perché conosce quel territorio che è suo. Lo dice in faccia ai suoi aggressori. Ciò è causa del suo sopravvivere contro di essi. Una tematica ricorrente della storia, che per un americano richiama subito l’esperienza della guerra persa contro i vietnamiti 30 anni prima di questo film: che hanno battuto gli statunitensi solo perché han fatto una guerra indipendentista, del tutto ragionevole e condivisibile, in territori a loro congeniali, come quelli di montagna e di foresta.
Ma, a un americano, ciò ricorda pure lo sterminio dei nativi del Nord America, che non avevano territori così nascosti per difendersi come le foreste tropicali: l’arrivo dei cristiani inglesi li ha falcidiati nei modi brutali del genocidio. Chissà se Gibson qui ha voluto omaggiarli, da fautore delle giuste lotte contro l’aggressività imperialista, come aveva immortalato già nell’ugualmente monumentale Braveheart.
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