Regia di Martin Campbell vedi scheda film
Ogni personaggio seriale ad un certo punto viene riletto e trasformato per aggiornarlo a tempi e modi evoluti negli anni. Dopo Batman (Begins) e Superman (Returns), tocca ora a Bond. Recuperando il primo romanzo di Fleming, la produzione ne approfitta per azzerare il personaggio, cambiare l’attore e dare nuovo impulso alla serie rifondando la mitologia nota su nuove basi e su un corpo inedito. Il film si concentra visibilmente sulla fisicità di Craig, tanto che il feticismo legato agli accessori (qui addirittura sadicamente distrutti o ironicamente citati), gli oggetti o le abitudini traslati di film in film a dare continuità e riconoscibilità al personaggio, sono ora trasferite sul corpo stesso del nuovo Bond, che diventa un feticcio sado-maso.
Poiché l'identità è nota (You know my name è la canzone di Cornell), rimane da definire il nuovo corpo dietro al nome. Ed è un corpo molto materico, denso di fisicità e sessualità. Se nel primo (Licenza di uccidere) e ultimo Bond (la morte può attendere) era la ragazza di turno (Ursula Andress o Halle Berry) ad emergere dalle acque, qui è lo stesso Craig ad offrire (per due volte) la sua epifania marina, ad esibire il corpo bagnato che esce dai flutti. Nella scena di tortura, Le Chiffre non manca di fare apprezzamenti sul fisico dell’agente, nudo di fronte a lui. E la sigla di testa, solitamente abitata da silhouette femminili, è ora piena di sagome maschili impegnate in feroci schermaglie. Da oggetto di desiderio femminile e invidia maschile, Bond viene qui di colpo inserito in una sorta di immaginario omoerotico, oggetto di attenzione della macchina da presa e di una parte del pubblico che mal poteva adeguarsi agli standard bondiani. Non solo il suo corpo viene mostrato come desiderabile, ma viene anche maltrattato in costanti confronti diretti, in lotte e botte continue, sanguinante, lacero, sofferente (quasi morto per arresto cardiaco. infine anche ricoverato in un sanatorio come un pensionato), sprovvisto dei provvidenziali orpelli tecnologici di un Q ancora da venire. È un corpo nudo ed esibito, e come tale si offre all’occhio dello spettatore, e solo in un secondo tempo dovrà imparare a rivestire degnamente i panni dell'agente 007.
Il Bond di Craig è quindi il corpo di un personaggio in via di definizione, da sgrossare da accento e cattive abitudini, dalla presunzione e da una ferocia animalesca. Appena ottenuta la licenza di uccidere, Bond agisce autonomamente, cane sciolto senza troppi riguardi per il buon nome di Sua Maestà. Quasi antieroe più che personificazione di un’astratta perfezione, Bond non è più un manichino inamidato ma l’incarnazione densa di un uomo d’azione, spiccio con le parole e con i concetti, quasi privo di ironia la cui levità deve ancora imparare a maneggiare con destrezza, a suo agio solo con pistole e pugni, un bulletto di provincia strafottente e un po’ cafone. L’omicidio è quasi una sadica soddisfazione per un sicario istituzionale che ancora deve compiere l’apprendistato del proprio ruolo, imparare a comportarsi e a vestirsi, a mascherasi con maggiore eleganza, a sedurre con il fascino più che con l’esuberanza fisica. Dotato di un viso da duro, un corpo scolpito e una certa evidente rozzezza, Craig, ottimo attore, viene ulteriormente zavorrato da un guardaroba privo di fascino (camicie a maniche corte o hawaiane), picchiato fisicamente e, nella narrazione, umiliato intellettualmente da donne che pensa di poter controllare (M, Vesper), incapace di scorgere al di là dell’apparenza o della superficie del comportamento, soprattutto femminile. Così la storia d’amore con Vesper diventa un melò mancato, per l’incapacità stessa di Bond di percepire la sofferenza dell’amante, un melò raccontato poiché la spiegazione deve essergli fornita a posteriori verbalmente e per esteso affinché la capisca.
Già l’ultimo film con Brosnan aveva inserito alcune modifiche sostanziali al personaggio e alla tipologia della “puntata”, inglobando l’antefatto all’interno della narrazione e non come episodio a sé stante, e già attentando all’integrità fisica di Bond con la tortura e l’allontanamento dal servizio attivo per alcuni anni. Alla regia di Casino Royale è stato scelto Martin Campbell che aveva inaugurato l’era post-guerra fredda del Bond di Brosnan con l’ottimo Goldeneye, film che già rifletteva alcuni aggiornamenti del personaggio (M lo maltrattava dandogli del “reperto storico”), ma senza la trasformazione radicale del nuovo film. Che peraltro appare diviso in sezioni cinetiche e statiche, svolgendosi, al di là di baruffe e inseguimenti (piuttosto ben fatti), in gran parte attorno ad un tavolo da gioco (dove forse una maggiore stilizzazione avrebbe giovato), obbligando ad una inedita sedentarietà da cui film, ruolo e attore (come anche il pubblico) sembrano istintivamente alieni, perché personaggio e spettatore devono essere educati al nuovo corso.
Ma il suo nome è Bond, James Bond, come sigla il film sul noto tema della serie. L’apprendistato è quasi al termine, l’attore e il personaggio si stanno raggiungendo.
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