Regia di Susanne Bier vedi scheda film
Si può parlare di fame nel mondo, di capitalismo occidentale che sfrutta i paesi sottosviluppati, di volontariato, di tradimenti e di cancro senza mostrare la fame nel mondo, i tradimenti, il cancro. Si possono lanciare pure dei messaggi, ma senza proclami e dimostrazioni, senza slogan e senza pietismi. È lo sguardo, nitido, lucido, consapevole, maturo, onesto di Susanne Bier, giustamente ritenuta oggi una delle autrici nordeuropee di maggior talento e spessore. Questo suo Dopo il matrimonio racconta dunque di un quarantenne danese che ha scelto di vivere in India nel semidisperato tentativo di salvare un pugno di bambini dal loro spaventoso destino, di una sua ex che, nella periferia di Copenhagen, si è rifatta una vita sposando un miliardario, capace di controllare tutto tranne gli imprevisti. Il tratto del film è ellittico e ciò che piace è il suo rispetto nei confronti degli spettatori, chiamati direttamente in causa, posti attivamente dinanzi a una storia che vuole solo suggerire, depistare sui dettagli (una lacrima, un anello, una carezza, un primo piano sugli occhi...). Susanne Bier non ha l'urgenza di suggerire terapie balsamiche al dolore fisico e spirituale di una cultura, di un popolo, di un continente in crisi: la sua cinepresa si accontenta di guardare in uno dei mille angoli in cui quella cultura, quel popolo, quel continente si è rifugiato per non guardare, per non soffrire, per non sentire nessun dolore.
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