Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film
Impressionante ritratto della donna e del mondo della prostituzione nel Giappone del dopoguerra, quantunque, quanto al secondo elemento, si può adattare a qualsiasi epoca e qualsiasi paese. Il regista mette il dito sulla piaga dell'egoismo umano, specie dell'uomo, che schiaccia a poco a poco la donna già provata dal lutto e dalla povertà, fino a spingerla a fare quel disumano mestiere. Vediamo infatti da un lato la micidiale ipocrisia della venditrice, che prima compatisce la poveretta, poi le dà una miseria per il vestito che le compra, e infine la invita a fare la prostituta. Dall'altro lato troviamo una serie di ritratti maschili assai poco nobili, per non dire infimi: tutti si approfittano delle povere sventurate, le sfruttano, e le usano persino per coprire i loro loschi traffici. Il peggiore è il tizio che incontra la ragazza sulla piazza, e poi la deruba e la violenta. Il regista mette in scena senza pietà il disumano mondo della prostituzione e punta il dito sugli uomini egoisti e libidinosi che lo alimentano. Il clima che si respira è simile a quello dei primi film di Pasolini, con le liti tra prostitute, le retate della polizia, e la violenza che pervade il mondo della strada, che infatti disumanizza chi vi prende parte. In questo senso è emblematica la metamorfosi della ragazza da prima a dopo aver fatto il mestiere: da ragazza buona e timida diventa una persona cinica e volgare, anche se da qualche parte nel suo cuore è rimasto ancora qualcosa di buono.... L'unica isola in quell'inferno è quella non precisata associazione che si occupa del recupero delle donne si strada. Non so se Mizoguchi fosse cristiano, ma la scena finale mi è piaciuta molto e mi domando con che intenzioni l'abbia girata: le due ragazze che tentano di tornare a una vita dignitosa con sullo sfondo le rovine di una chiesa bombardata, la cui unica parte rimasta in piedi è un affresco della Vergine col Bambino.
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