Regia di Edwin Sherin vedi scheda film
Il film, l’unico western di Edwin Sherin che è prettamente regista televisivo, è un western che risente dell’ondata italiana del ’67, anno delle distribuzioni americane dei film di Leone e di Corbucci, tant’è che non solo ne riprende l’estetica violenta e la messa in scena estraniante, ma addirittura è girato in Almeria, nel deserto di Tabernas. Poco piaciuto alla critica, forse sazia e innamorata dei film dello zio Sam, già violenti e demitizzanti di loro, non ha capito il valore estetico di un film che dietro l’impegno civile, tipico dell’epoca, nasconde un gioco di “altrovi” e “altrieri” importanti per il significato ultimo di ogni western che si rispetti. Se il film di Sherin non ha lo stesso impatto emotivo dei film di Leone, e l’eversione estetica di quelli di Peckinpah, ha di suo il potere di impressionare sulla pellicola il peso del rimorso, amplificato dal paesaggio e dalla regia che ne esaltano i ritmi agonici. Poi va detto che già la storia di per sè è un’agonia che risulta insopportabile umanamente per lo spettatore. Tutte le angherie a cui è sottoposto il protagonista, condensano tutte insieme nella frustrazione e nell’impotenza dello spettatore destinato solo a guardare gli eventi. Quando in seguito, Bob Valdez comincia a riscattarsi e a fare giustizia, benchè sommaria, la deflagrazione dell’uomo comune e impotente davanti alle istituzioni abortite (siamo nei ’70) è l’orgasmo puro e semplice sia dell’opera cinematografica che dello spettatore. In questo contribuisce notevolmente un “appesantito” Burt Lancaster, memore dei suoi outsider western, come il Owen de “La Valle della Vendetta”, l’Apache Massai e il Joe Erin di “Vera Cruz”, che nella bonarietà del suo personaggio filtra al setaccio la sua etica primitiva, coraggiosa, lineare e solida, radicata nell’origine umanista dei grandi dissociati, ribelli ed arrabbiati di tutta la storia dell’uomo.
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