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Io sono un campione

Regia di Lindsay Anderson vedi scheda film

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La recensione su Io sono un campione

di Baliverna
8 stelle

Dove ci sono più mischie, spinte contrarie e denti rotti? Nel rugby, nell'ascesa sociale o in amore? Il protagonista di questa pellicola "arrabbiata" le busca un po' dappertutto.

E' un esempio del cinema “arrabbiato”, che venne prodotto in Inghilterra tra la fine degli anni '50 e i primi '60. Karel Reisz, autore di alcuni esmplari del genere, qui solo produce, e cede megafono e sediola al poco noto ma capace Lindsay Anderson.

Nella prima parte mi sono detto che – a parte i denti rotti del protagonista – forse era un film più morbido e conciliante di altri esemplari del genere. Invece, con il procedere, la vicenda si fa più ruvida: aumentano i contrasti, cresce la tensione interna del protagonista (un bravo Richard Harris), l'ambiente della società sportiva si fa infido, e i sentimenti sono in eterno conflitto. Harris, con la sua recitazione nervosa e con il suo sguardo torvo, impersona un uomo con dentro una specie di rabbia repressa, non ben qualificata per la verità, ma che ad ogni momento minaccia di esplodere. In certi momenti in parte la sfoga, ma si vede bene che quella che non esce è molta di più. Come dicevo, questa rabbia non viene spiegata troppo: infanzia povera e difficile? Troppe umiliazioni inflitte? Desiderio frustrato di riscatto? Desiderio frustrato di amore corrisposto? Forse il suo stesso giocare a rugby – uno sport che contiene una certa dose di violenza – è un tentativo di farla sfiatare, sublimandola nello sport. Quello che si sa, è che è nato povero, e che ora si è ritagliato un posticino al sole grazie ai soldi dell'ingaggio. Ma la classe media rimane lontana, e il suo modo di vivere e di pensare (compresa l'ipocrisia dei “sepolcri imbiancati”) rimane molto diverso, indipendentemente dal denaro posseduto.

Interessante e complesso risulta anche il personaggio della vedova di cui s'innamora il protagonista (una brava Rachel Roberts), ma dalla quale viene per un bel po' caparbiamente respinto. La donna è legata al marito defunto da un forte senso di colpa (che però appare immotivato all'esterno) e sembra abbia deciso di punirsi restando sola con in bambini. Pare addirittura che perda la stima in se stessa quando cede all'amore che pure sembra provare per il giocatore di rugby. Il conflitto interiore che le si genera è insomma di quelli quasi impossibili da risolvere.

L'amarezza cresce via via che il film procede, e presto si capisce che i contrasti sono insanabili e che la via della felicità è troppo ingombra di ostacoli.

Il finale è quasi crudele con lo spettatore e forse mi ha lasciato un po' a disagio, ma non si può negare di trovarsi davanti a vero cinema. Sullo sfondo, vediamo un'Inghilterra grigia e umida, fangosa, industriale e senza poesia, che per questo si adatta in qualche modo alla vicenda raccontata.

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