Regia di Jonathan Liebesman vedi scheda film
Non è chiaro se il film narri in immagini, fatti realmente accaduti tra il 1969 e il 1973, nello stato del Texas (Usa), dove la famiglia Hewitt uccise trentatré persone (come dice una voce narrante al termine della pellicola). Il problema è il delirio di violenza e il versamento di ettolitri di sangue. Dario Argento e, come lui, uno dei ‘re’ del pulp, Quentin Tarantino, l’avranno magari immaginato, ma non se la sono mai sentita di trasporlo in una delle loro opere in maniera così pacchiana. Lo spettatore si trova a trangugiare un eccesso di splatter che nel giro di una ventina di minuti diviene stucchevole e poco credibile. All’inizio il protagonista sembra dover essere il ‘mostro’ partorito in circostanze raccapriccianti. È lui la ‘prima donna’ dei titoli di testa, che mostrano gli sviluppi della sua crescita disgraziata, funestata dalla sua deformità facciale e dalla conseguente patologia mentale che ne fa una bestia sanguinaria. Dopodiché il ‘nostro’ si rivela solo un elemento strumentale per completare le azioni allucinanti del vero depravato della famiglia, interpretato da un discreto quanto caricaturale R. Lee Ermey. È la seconda pellicola di Jonathan Liebesman (che ora si augura di sfondare con la sua ultima fatica, l’attesissimo Tartarughe Ninja, versione film). Il cineasta sudafricano riduce per il grande schermo uno script dello specialista horror Tobe Hooper (che nel 1974 diresse, appunto, il primo e da molto tempo cult, Non aprite quella porta). Cosa c’è di originale in questa versione? Il fatto che non v’è traccia di un eroe che si salvi e che salvi qualcuno. I buoni e innocenti muoiono tutti.
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