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Le rose del deserto

Regia di Mario Monicelli vedi scheda film

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La recensione su Le rose del deserto

di ROTOTOM
4 stelle

Sabbia, tanta sabbia. In bocca ad impastare le parole in un sonoro indegno, veicolo di una sceneggiatura già di per sè farraginosa, raggrumata in un bolo incomprensibile di saliva e rena. Sabbia tra gli ingranaggi che ne grippano il funzionamento, motori in panne, storia confusa e senza una precisa direzione. Come non sanno la direzione da prendere i fantaccini guidati da un Brancaleone più ansiogeno che mai (Haber) lungo le piste del deserto, non sa che strada prendere la narrazione del racconto, flebile traccia lasciata tra le dune semoventi in balia del vento. Sabbia tra le quinte che non scorrono sui loro binari e si bloccano stridendo in tempi lunghi senza sospensione narrativa, affossando il ritmo ad una serie di statiche scene senza sfumature ne’ profondità. Sabbia che impasta l’olio dei meccanismi della sceneggiatura, ironica ma colma di retorica nei confronti di un ‘attualità di per sé già talmente retorica da disperdere tutto il patrimonio di graffiante denuncia che il film si prefiggeva. Le guerre sono tutte uguali, questo il sunto, e i soldatini monicelliani divisi tra Mash e Mediterraneo della guerra non ne vogliono sapere. Caldo, caldo e sabbia in questo film che vorrebbe ma non può graffiare, non si scrosta di dosso il silicio fuso dal sole che si cristallizza e vetrifica i personaggi in figurine bidimensionali, ne blocca i movimenti, pialla le espressioni senza sfumature, senza sudore, peli, sangue e passione, umori colati e sparsi sulla sabbia da una vena ormai estinta. E’ penoso quando il miraggio si sfalda nella realtà, quando l’arsura inganna i sensi e il pugno stringe a vuoto l’aria arida. I soldatini italici ritratti nei loro marcati accenti, seguono le piste nel deserto, allontanandosi sempre di più dal racconto, seguendo una macchietta di alleato tedesco caricaturato in contorni grassi. Subiscono il generale ottuso presentato come una maschera grottesca tra il grottesco bellico, al suo comparire la pellicola accelerata produce l' effetto delle comiche alla Ridolini che nelle intenzioni dovrebbe sottolineare la natura erronea del piccolo despota che vuole fare carriera (Sanguineti) ma che in realtà instilla il sospetto dell’ennesimo fallo di un film sbagliato. I fantaccini sono vestiti color sabbia, sono figurine piatte piazzate su un paesaggio e come granelli di quella sabbia invasiva e sottile sono spostati dal vento da una scena all’altra, senza approfondire nulla, mimetizzati con l’ambiente circostante dal quale non riescono a stagliarsi finiscono per sparire, nascondendosi dai nemici e dagli spettatori che in una sorta di metacinema involontario, non riconoscendone appieno i caratteri semplicemente li dimenticano. Monicelli voleva fortemente questo film, ma ne smarrisce presto la direzione, anch’egli confuso dal caldo e dalle piste e da quella maledetta sabbia che si insinua in tutte le crepe, minandone le aderenze e provocando stridii incontrollabili. Così le scene si interscambiano gracchiando, senza quella fluidità che ha caratterizzato i capolavori passati del Maestro. Così l’ironia si squaglia nel patetismo, la caratterizzazione nella macchietta, l’amore nel romanticume, il soffice erotismo della muta Moran Atias, bellissima, sfuma nel nulla del limbo della colpa senza peccato, giubilato da due parole due a sommaria spiegazione della vicenda. E dire che invece l’incontro della bella Moran con il medico Pasotti è forse la scena meglio fotografata, più sentita e ricca di spunti, colpevolmente disattesi. La sabbia delle parole, granelli separati l’uno dall’altro, piccoli ma se mal gestiti in grado di provocare nubi dense dalle quali è impossibile uscire. Uno script mediocre quindi alla base di tutto, superficiale e poco ispirato, in grado solamente di fornire ai corpi il concetto semplice dell’italiano in guerra, più interessato al paesaggio che all’ottusa ricerca della vittoria. Concetto che è sciorinato nei primi venti minuti, ben chiaro e continuamente sottolineato dalle forzature di una verbosità inadeguata nei modi e nei tempi, fino alla svogliata e sbrigativa chiusura, con il maggiore che viene seppellito, finalmente sotto un cumulo di sabbia. Unica menzione positiva per il personaggio del prete interpretato da Michele Placido, padre spirituale che ha in carico le anime dei soldati e che con dio ha un rapporto quasi da laico umanista. Corpo e spirito, grande fisicità, umano e devoto, solitaria rosa del deserto plasmata a dovere e posta al di sopra di tutti gli altri da un guizzo di mano sapiente. Troppo poco però, peccato.

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